La fortuna dei milanisti è stata che nel 1987 i social non esistevano. Altrimenti sai gli hashtag che avrebbero sommerso il signor nessuno Arrigo Sacchi ingaggiato da Berlusconi? Quasi trent’anni dopo, eravamo nell’estate del 2014, un po’ di juventini pensarono bene di abbandonare la tastiera e di andare direttamente a prendere a calci e a sputare sull’auto che stava trasportando il nuovo allenatore bianconero: Massimiliano Allegri. Che poi vinse cinque scudetti di fila. Poveri milanisti e juventini se Berlusconi e Agnelli si fossero piegati alle grida sguaiate e maleducate di una minoranza ridottissima, per nulla rappresentativa, ma molto rumorosa. Potremmo pubblicare un’enciclopedia sulle sliding doors del pallone.
Ai giorni nostri il fenomeno è ormai quotidiano. Qualche settimana fa impazzavano i milanisti con il loro #Lopeteguiout. Ora tocca alla Lazio. Qui i tifosi prima hanno accompagnato Tudor alla porta (gli hanno dedicato un simpatico striscione) e ora pretendono di deciderne il successore. Baroni non lo vogliono. E stanno trasformando Twitter (pardon, X) nel consueto sfogatoio e florilegio di hashtag. #NoBaroni #RispettoperlaLazio. E così via. Forse vorrebbero che Lotito strappasse Guardiola al City. Come se non stessimo parlando di uno dei tecnici che più si sono messi in mostra in stagione: ha salvato il Verona in condizioni societarie precarie.
La nostra impressione è che il giocattolo stia sfuggendo di mano. In maniera preoccupante. I social non sono la realtà. Ma neanche lontanamente. Trecento persone - o anche mille, duemila, cinquemila - che dopo una sconfitta sfogano la loro frustrazione scrivendo #ciccioout, non sono rappresentativi di nulla. Non sono nemmeno l’equivalente pantofolaio di una contestazione a fine partita. Sono l’espressione di un rito che ormai rientra nella cornice abitudinaria legata all’evento calcio. Un tempo - tanti anni fa - a fine partita si controllava la schedina e si aspettava Novantesimo minuto. O si scendeva al bar per discutere e polemizzare. Oggi si va sui social a leggere che aria tira e a dire la propria. Magari quel giorno hai pure beccato una multa per divieto di sosta e allora sei più avvelenato del solito. Scrivere #ciccioout ti risolleva l’umore, anche perché è gratis.
È grottesco pensare che strategiche decisioni societarie, quale è la scelta di un allenatore, vengano prese sentendo gli umori o ascoltando le dritte di cuoreappassionato64 oppure sololamaglia83. Viene da ridere. O da piangere. Se De Laurentiis avesse ascoltato la parte urlante della piazza, non avrebbe mai vinto lo scudetto. Mai. Sbagliamo anche noi media a sovradimensionare il fenomeno: i commenti sui social sono ormai entrati stabilmente nella narrazione, in tv come sui quotidiani. Ma è come se negli anni Settanta e Ottanta nelle trasmissioni sportive si fosse dato conto del commento del tifoso XY che all’uscita dallo stadio sacramentava contro il presidente. Il giornalista sarebbe stato licenziato. Oggi manca poco alle sostituzioni decise col televoto, non ci meraviglieremmo se fosse una delle prossime novità del calcio.
Sarebbe ora di dire basta a queste continue concessioni agli umori del presunto popolo. Presunto perché ricordiamo che la stragrande maggioranza delle persone non trascorre la propria vita sui social. In ogni club dovrebbe campeggiare la frase di Kolarov: «Il tifoso può essere arrabbiato e può esprimere la sua opinione allo stadio, ma deve anche essere consapevole che di calcio capisce poco».
È ora di ammettere che uno non vale uno. Il tifoso è spettatore. Con i suoi diritti (di protestare, di contestare, di disertare) ma anche con i suoi confini. Mica Sorrentino consulta gli spettatori per sapere come girerà il prossimo film? I presidenti facciano lo stesso. Impongano la primazia della competenza. È l’unica strada da seguire per dirigere un’azienda. Altrimenti saranno travolti da quello stesso popolo che loro hanno accontentato con l’illusione di ingraziarselo.