Tommaso Maestrelli diceva che quando le cose vanno storte bisogna far festa. Ci fu un periodo lungo un mese, nell’anno dello scudetto, in cui la sua Lazio, dopo una partenza lanciata di due vittorie, non riusciva più a vincere. Capitò dalla terza alla sesta di campionato: batosta a Torino (1-3 dalla Juve), pareggi a reti bianche con Fiorentina e Cesena (Chinaglia furibondo come sempre quando non faceva “go” spaccò una panca dello spogliatoio), 1-1 all’Olimpico con l’Inter. Il 25 novembre del ’73. Rinfrancato dal “go”, fu proprio Long John quel giorno a proporre una “festicciola” per non affondare nella depressione di una classifica malinconica. E Tom prese la palla al balzo: «Domani tutti a casa mia». La signora Lina preparò, come sempre, un pranzo con i fiocchi, ma volle dividere gli ospiti in due gruppi in due giorni diversi, «Masì, in venticinque a tavola non c’entriamo».
I ragazzi del ’74 risero e scherzarono, sparirono i musi lunghi, negli allenamenti a Tor di Quinto tornarono a sfottersi e randellarsi. Seguirono sei vittorie consecutive, il volo verso lo scudetto.
Ora, non credo che Maurizio Sarri abbia la grazia, il carisma e forse neanche la sala da pranzo spaziosa di Maestrelli, però qualche palettata di cemento fra sé e la squadra sarebbe opportuna. Vedo in campo giocatori ombrosi, nervosi, impegnati a “lavorare” senza “divertirsi” come accadeva l’anno scorso. Anche coloro che vedevamo sorridere di più, come Luis Alberto o Ciro Immobile.
C’è qualche ruggine nello spogliatoio, e il caso-Vecino lo conferma. Spifferano voci allarmanti dai luoghi cittadini frequentati dai giocatori. Ce l’hanno con Sarri? Sono diatribe fra compagni di squadra? O fra alcuni giocatori e la società per via di mancati rinnovi di contratto?
La Lazio di Sarri
Se non a Sarri, spetta a Lotito scrostare la ruggine e ristabilire serenità; un pranzo, una cena, una merenda, decida lui; il suo distacco dalla squadra potrebbe essere una delle cause dell’andamento lento.
Poi esistono cause tecniche chiare come l’acqua di fonte. Giocatori sotto il loro rendimento standard, certo, ma anche imprigionati in un modulo ingessato, scontato e conosciuto ormai dagli avversari nei minimi particolari. Posso dirlo? Vecchio. Superato. Un simil tiki-taka inventato da Guardiola e abbandonato tanti anni fa. E comunque insistito anche quando la partita prende una piega storta.
Nessun’altra squadra concepisce tanti passaggi laterali e a ritroso come la Lazio, nessun’altra squadra tiene palla per il 72% della partita centrando solo tre volte lo specchio della porta, nessun’altra squadra perde 10 punti dopo avere maturato il vantaggio, nessun’altra squadra reagisce alla rimonta del nemico senza tentare una carta diversa. Per rimanere all’ultimo esempio: il Verona dei Tchatchoua, Serdar e Mboula una volta in svantaggio è passato dal 4-2-3-1 al 4-4-1-1 (cambio di modulo in corsa: così fan tutti), mentre dopo il pareggio Sarri ha sostituito Immobile con Castellanos e Zaccagni con Pedro, cioè rinunciato ai due più titolati goleador della squadra per lasciare immutato lo schema anche dopo l’espulsione di Duda. Altri colleghi (quasi tutti) di fronte alla necessità di rimontare avrebbero aggiunto una punta centrale sacrificando un difensore o un centrocampista tentando l’assedio.
Obiezione: la Lazio dispone di una sola punta oltre Ciro. E quell’unica punta non punge. Giusto, non voglio negare una porzione di responsabilità a carico di una società avaruccia, il cuoco però apparecchia la cena con gli ingredienti che sono nella dispensa. Immobile e Castellanos non li abbiamo visti insieme neanche nei momenti di necessità più stringente.
Insomma, se la classifica piange ognuno dei partecipanti ha messo il suo. Ricompattarsi attorno ad un tavolo per ricominciare a sorridere, preludio necessario alla riscoperta del gioco, mi pare necessario. Tocca a Lotito e Sarri riaccendere la scintilla. E ai giocatori accoglierla con la necessaria apertura. A loro dedico un aforismo del maestro Bruno Roghi: «Il domani di una vittoria può chiamarsi sconfitta, ma il domani di una sconfitta deve chiamarsi rivincita».