Vincenzino fermati, dove cazzo vai! È presto, troppo presto per andartene e lasciarci con un coltello piantato nel cuore. Neanche una settimana fa mi avevi giurato di star meglio: bugiardo. Abbiamo parlato anche del cinquantenario dei supereroi, l’anno prossimo. “Faremo una festona e ti butterò in piscina come tu hai fatto con me una volta”, mi hai detto. È troppo presto: quante volte l’hai sentito dire? Ma tu niente, via, con quella faccia strafottente in mezzo a quelli più grandi di te. “Presto de che? Io ho fretta”.
Capimmo subito di che sfoffa vestivi
Quando, a ritiro già iniziato, arrivasti a Pievepelago accompagnato da Nando Vona stavamo tutti a pranzo, i giocatori da una parte, noi giornalisti da un’altra della sala. Si aprì la porta e dietro la sagoma imponente di Nandone comparisti tu, mingherlino e riccioluto, che esordisti con un “buongiorno e buon appetito, comodi, comodi, non vi alzate”. Avevi 17 anni e una faccia da culo clamorosa. Ferruccio Mazzola fermò il braccio di Chinaglia che forse voleva tirarti addosso il piatto di spaghetti. Il pomeriggio, in campo per il tuo primo allenamento, chiedevi palla a tutti, e a Giorgio che spazientito ti disse “Tu stai zitto e la palla vedi di darla a me” rispondesti “Va bene ma io la palla posso dartela solo se la danno a me”. Dopo neanche mezz’ora eri tu che comandavi il gioco. Capimmo subito di che stoffa vestivi. E che piedi ti aveva donato madre natura.
La forza di D'Amico
Quando nell’estate del 1972 Maestrelli stava plasmando quella straordinaria squadra, la maglia numero 11 sarebbe stata già tua se una maledetta amichevole a Rieti non ti avesse fatto saltare i legamenti e l’intera stagione. Pareva una carriera spezzata sul nascere, e invece ti rialzasti come Lazzaro. Non fu un miracolo ma la forza dei tuoi 18 anni. Manservisi dovette cederti il posto e tu - a comune giudizio - ti avviasti verso un grande futuro. Più grande, nelle previsioni, di quello che in realtà hai poi raccolto. Colpa tua. Del tuo Dna ribelle. Del tuo menefreghismo. Della tua gioia di vivere. Ma sì, hai fatto bene. E se non avessi incontrato San Tommaso sarebbe finita sicuramente peggio. Scusa: meno bene. Per evitare che li dilapidassi, i tuoi stipendi li tratteneva lui concedendoti una paghetta mensile; per evitare che dopo gli allenamenti ti strapazzassi con 600 chilometri Roma-Firenze-Roma per una ciulatina, ti sequestrò la patente. Quante volte lo hai ringraziato quando hai messo un po’ a posto la tua testa riccioluta.
Giovinezza scapigliata
Ma i compagni di squadra e la tifoseria laziale ti volevano bene anche per questa tua giovinezza scapigliata. Come si ama l’ultimo cucciolo di una nidiata. Quello che sorridente bussa ed entra nel cuore di chiunque lo incontri.
Chinaglia chiedeva a Maestrelli di escludere Re Cecconi, ma mai di non far giocare te che gli scodellavi palloni d’oro. Anche se una volta, a San Siro, ti diede un calcio nel sedere passato alla storia. Wilson all’inizio della tua strada laziale divideva con te la camera per indottrinarti, fin quando tu, con il volto sfatto, chiedesti a Maestrelli di poter riposare da solo poiché il capitano dormiva quattro/cinque ore per notte. Eri il “golden boy” che i tifosi laziali aspettavano da anni e quell’appellativo ti è rimasto appiccicato, i tuoi compagni ti hanno chiamato così anche con le rughe sul viso e l’andatura ciondolante. Ti innamorasti della Lazio e la Lazio, l’intero mondo laziale, si innamorò presto di te. E non solo per lo scudetto che vi cuciste sulle maglie, nel quale avesti un ruolo di prima fila. Festeggiasti quell’impresa con qualche goliardata irripetibile, ma meno rischiosa dalle bravate in armi di alcuni tuoi compagni, il premio scudetto migliorò le condizioni di vita della tua famiglia di Latina.
"Boom, una botta forte"
Una volta mi dicesti che al gol nel derby di ritorno ti scoppiò il cuore, proprio così, “boom, una botta forte”. Avevi ormai la pelle biancoceleste. “Fra’, (in 50 anni che ci conosciamo non mi ha mai chiamato col mio nome completo) io da qua non me ne andrò mai”: me lo dicesti quando sembrava che il Milan fosse intenzionato a portarti via.
Come tutta la squadra, la malattia e poi la scomparsa di Maestrelli ti tolsero voglia e fantasia. Poi quel nuovo, lungo infortunio che - mi confessasti - ti fece persino balenare l’idea di smettere. Bob Lovati accompagnò la tua crisi con l’affetto di un padre, ti rimise in sesto l’anima oltre che i muscoli. Non credevi neanche tu in un recupero così completo. Tanto che il Torino offrì 300 milioni a Umberto Lenzini per il tuo trasferimento. Naturalmente, ti opponesti, ma allora i giocatori erano merce in mano alle società. Il sor Umberto ti abbracciò, me lo raccontasti tu: “Vincenzì, sii bbono, ’sti soldi ce servono sennò famo patatrac”. Facesti le valigie in lacrime, ma l’esilio - sì, lo chiamasti “esilio” - durò solo un anno, poi puntasti i piedi e tornasti alla Lazio, che hai salvato dalla Serie C e poi hai riportato in Serie A con la fascia di capitano.
Sei volato via troppo presto
Hai smesso quando le tue ginocchia hanno cominciato a scricchiolare, dopo due anni alla Ternana per fare un piacere all’allenatore Mario Facco, tuo ex compagno di scudetto laziale. Cragnotti ti ha riportato alla Lazio come osservatore nel 1999. Eri felice, gasatissimo: “A Fra’, so’ tornato a casa”. Ma è durata poco. “Non sono tagliato per fare il dirigente né per fare l’allenatore”: lo dicevi tu. Due ruoli troppo impegnativi, troppo seriosi. Hai dato il meglio come commentatore. Di calcio, ovviamente. In Rai hai sfondato: competente, ironico, fuori dagli schemi. Potevi essere te stesso. Al naturale. Come sei sempre stato. Come dovevi continuare ad essere. Io non ci credo che volessi raggiungere i tuoi ahimè numerosi compagni di questa squadra magica e sciagurata, con la tua voglia di vivere, con la tua ultima moglie e i due figli a fianco. Con la Lazio in Champions che “non vedo l’ora di vedere cosa è capace di fare”. Sei volato via troppo presto, Vincenzìno. Troppo presto…