Motta e Palladino sono usciti dal liceo col massimo dei voti, uno a Bologna l’altro a Monza, due campionati con i controfiocchi per acquisire di slancio l’accesso all’università delle grandi squadre, qui nella nazione di un dogma indiscutibile, quello per cui l’allenatore è davvero grande se e quando allena una grande squadra, altrimenti è bravo, certo, come no, però “non è da grande squadra”, qualunque cosa voglia dire. Ovviamente a parte Gasperini, che ultimamente è arrivato a bestemmiare in chiesa, eretico insolente: bocciato all’università dei superclub, lui assaggiato e sputato dall’Inter dopo tre mesi con lo stigma definitivo, “non è da grande squadra”, una grande squadra s’è messo a costruirsela in proprio, da autodidatta, adesso dall’alto della sua Atalanta europea guarda i grandi e ancora aspetta che quelli s’inventino la nuova etichetta.
Casualmente, e chissà se è solo un caso: Motta-Palladino è anche e forse soprattutto il duello, il confronto diretto, il braccio di ferro tra due replicanti del Gasp, due dei tanti, quasi a dimostrare che l’esperto maestro buttato fuori dall’università è riuscito comunque a fondare una scuola, diciamo un don Milani profano che esce dai canoni convenzionali e s’inventa un altro modo di crescere gli allievi. Tanto tempo dopo Sacchi, è forse il fenomeno più innovativo, come una rivoluzione, che l’Italia abbia prodotto in questi ultimissimi anni: giocarsela a tutto spiano senza calcoli e senza remore, fino alla fine. Purchè sia così anche stasera, purchè Motta e Palladino non regrediscano pavidamente verso un indolore pareggio senza vincitori e soprattutto senza sconfitti, perchè altrimenti questa romantica poesia va doverosamente inviata al macero. E il Gasp si rivolta sulla panchina.