Non sembra più la Juventus. Ma non parliamo del campo e dei risultati. Quelli vengono dopo. Ci riferiamo alla filosofia, a quello che nella cultura anglosassone viene definito concept. Fino a pochi anni fa, con Andrea Agnelli in sella, la Juventus era quella della tradizione. Marchiata a fuoco dalla frase di Giampiero Boniperti: «Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta». La Juventus è sempre stata sinonimo di vittoria, di spietatezza, di ferocia agonistica. Era il suo Dna. Che l’ha resa allo stesso tempo la squadra più tifata e più odiata del Paese. Questo modo di essere Juventus non esiste più. È stato concettualmente e scientemente smantellato. In un’intervista concessa a settembre al Corriere della Sera, Cristiano Giuntoli (il direttore sportivo della nuova era bianconera) dichiarò: «La Juve è una società che deve vincere. Non è la sola cosa che conta, ma quella più importante. Noi dobbiamo mantenere l’equilibrio finanziario». E ancora: «C’è il risultato, ma anche il modo con il quale ci si arriva. Bisogna partire dalle prestazioni, sta qui la differenza».
Proprio così, sta qui la differenza. Nella nuova Juventus, quella di Elkann, di Giuntoli e di Thiago Motta, hanno fatto il loro ingresso concetti storicamente estranei come la cultura dell’alibi. Proprio l’altra sera, prima del 2-2 in casa col Venezia, Giuntoli ha battuto il tasto dei numerosi infortuni. Ed è invece completamente scomparsa la parola vincere. Sbianchettata. Non solo non è più l’unica cosa che conta ma non se ne parla proprio. Tale era l’ansia di rompere col passato agnellian-allegriano che si è cercato di alleggerire quanto più possibile le responsabilità dei nuovi arrivati. Quanti avevano fame e curriculum di vittorie, come Szczesny o Rabiot, sono stati accompagnati alla porta in nome delle esigenze di bilancio. Al loro posto sono arrivati dei prospetti. Come si conviene a squadre che non hanno l’obbligo di primeggiare e che possono consentirsi il lusso di sperimentare.
Alla Continassa non si avverte più il peso della vittoria. Non è più un macigno che toglie il sonno. Quest’anno il secondo posto (al momento un miraggio) sarebbe salutato come un grande successo. Si è perduta quella tensione, quella determinazione agonistica che da sempre contraddistingue i grandi club come Real Madrid, Bayern Monaco e appunto Juventus. È questa la rivoluzione avvenuta e che ha finito col produrre conseguenze sul gruppo squadra. Non c’è più cinismo. Non c’è più la proverbiale cattiveria agonistica. Non c’è più il sangue agli occhi. Stiamo per scrivere la parola che un tempo avrebbe fatto trasalire i tifosi della Juventus: sta diventando una squadra simpatica. Boniperti sarebbe andato su tutte le furie. “Orrore”, direbbe un tifoso illustre come Giampiero Mughini.
È questa la rivoluzione di cui discutere. Il resto sono solo conseguenze. I nove punti in meno rispetto allo scorso anno. I dieci pareggi in campionato su sedici partite. L’allegria nei match casalinghi contro formazioni sulla carta decisamente più deboli. A Thiago è rimasta solo la foglia di fico delle zero sconfitte. Pochino. Oggi la Juve sarebbe fuori anche dalla prossima Champions. Che poi non siano arrivate neanche le tanto strombazzate prestazioni, è un dettaglio in questo mare di mediocrità che sta lentamente impossessandosi del club di casa Agnelli.