Buon lavoro, Thiago Motta. Con tutto il cuore, tutta la curiosità e tutta la spregiudicata incoscienza del mondo. Dal Bologna alla Juventus cambiando latitudine, aspettative, umori, colori della maglia e dell’animo, arie di primavera e profondità dell’inverno. Cambiando lavoro, soprattutto. Che sia buono, ma con la consapevolezza che comunque vada sarà diverso.
Non perché il nome della Juventus quando cade in terra fa più rumore di quello del Bologna e quando si alza in cielo colpisce di meno. Non sta lì la differenza. È che passare dai club attraverso i quali Motta si è ispessito la pelle e ha ampliato la propria enciclopedia tecnica insegnando, addestrando, osservando e assorbendo, a una squadra che tutte le settimane è chiamata a giocare, anzi a vincere, per tre volte, e viaggia e ritorna, e non si ferma mai a pensare al futuro, è tutta un’altra faccenda. Un salto di visione alla base di una delle gag preferite di Carlo Ancelotti, messa in scena ogni volta che qualcuno gli chiede quando accidenti riescano ad allenarsi i suoi giocatori. E risponde: quando giocano.
Naturalmente, Thiago Motta avrebbe dovuto cambiare lavoro anche a Bologna dopo aver accompagnato fino alla Champions una squadra partita anch’essa per fare tutt’altro lavoro e scopertasi strada facendo artistica, divertente, efficace e pressoché impossibile da incrinare. Ma ha voluto la bicicletta e adesso pedali. Ha tenuto per settimane in ansia da tradimento (affettivo, nulla di grave) una città, un direttore sportivo dai mille occhi e un presidente ricco di soldi e di fiducia nelle persone. Aggiungiamo che devono ancora costruirgli un organico degno del nome che porta. A sensazione, faticherà meno a inventarsi da Champions Italiano a Bologna che lui alla Juve, dato che il primo arriva da due stagioni affollate da sessanta partite ciascuna. Però Motta è a Torino per questo. Per sfidarsi a cambiare, naturalmente, e per il gusto di entrare a far parte di una storia più vasta, per il fascino dell’esplorazione di uno spazio ostile. Mentre per il Bologna la SuperChampions sarà in ogni caso una terra promessa per la Juventus sarà, come da recente tradizione europea, un terreno minato.
Lo hanno scelto, supponiamo, per il suo essere diavolo e acqua santa, gasperinista e mourinhano sotto una sottile pellicola di bel gioco, bel gioco liberato però da ogni sfumatura ideologica e talebana. Per noi gli allenatori si dividono in vincenti e meno, ma c’è chi li classifica in base alle parole esoteriche di cui infarciscono i loro racconti di campo. Di conseguenza, mettersi in casa un tecnico che fa tremare l’Italia ha fatto con la manovra e il miglioramento dei giocatori non è una mossa sbagliata da parte di una società spesso accusata di preferire il risultato all’estetica (come se qualcuno la pensasse diversamente al di sotto delle maschere di rispettabilità). D’altra parte lui lo sa benissimo: assai più che a Bologna, nessuna buona azione gli sarà perdonata e, proprio come a Bologna, in caso di necessità dovrà chiudersi a ostrica e pensare a soffocare il gioco altrui invece di imporre il proprio. Conosce il suo lavoro. Anche se è un lavoro nuovo.