Szczesny e Sommer stanno all’opposto. Uno fa i miracoli, l’altro si produce in un incessante quanto inutile esercizio di piazzamento. Non farà una sola vera parata. È questa la fotografia di Inter-Juve, al di là del risultato, che giunge su autogol, e quindi dice e non dice. Ma in campo ci sono due squadre troppo diverse. A centrocampo, per esempio. Di qua c’è il diligente Locatelli, il dinamico Rabiot, l’anonimo McKennie. Insieme fanno una rispettabile pattuglia. Ma di là è un’altra cosa. Di là c’è un marziano che uncina la palla di esterno e la fa passare tra le linee, oppure la schiaffeggia con la fionda del destro e la spedisce sessanta metri a nord est, sui piedi dell’esterno che si è fatto avanti per riceverla. Calhanoglu è poesia, regia, comando, dolcezza. Tutta la bellezza del calcio nella cassetta degli attrezzi di uno solo. Un sublime artigiano. E attorno gli corrono Barella e Mkhitaryan, gli coprono le spalle, si smarcano, affondano come i pistoni di un due cilindri perennemente spinto al massimo di giri, senza apparente fatica. Un centrocampo così fa la prima differenza.
L’altra la fa la sgraziata tecnica individuale di Vlahovic, un quasi campione che fa sei gol in sei partite e, alla settima, la più importante, sbaglia lo stop sull’assist che vale il pareggio, e poi scompare nell’irrilevanza, come uno qualunque. Certo, anche Lautaro davanti alla porta ha un’inconsueta esitazione, ma almeno si muove, arretra, triangola, apre ai compagni. Lui è un campione vero anche quando non segna. Se Szczesny non fosse ancora un fenomeno alle soglie dei trentaquattro anni, altro che corto muso. Almeno due volte il portierone bianconero compie un miracolo. Dell’istinto, quando si oppone a Barella con lo stinco. Della volontà, quando alza il braccio sinistro sul tiro a colpo sicuro di Arnautovic.
Inter-Juve è il confronto al vertice più equilibrato che i tempi concedono al campionato, eppure tra nerazzurri e bianconeri ci sono almeno due spanne di qualità, di determinazione, di carattere. E ci sono due modi diversi di rappresentare lo stesso tre-cinque-due, simbolo del tatticismo della scuola italiana, in una gara che pure alterna coraggio e prudenza, mai azzardo e mai resa da entrambe le parti. Allegri non poteva realisticamente pretendere di più, avendo dato fiducia al giovane Yildiz, pur sapendo che, in una partita così, da un diciottenne che non sia Maradona non puoi aspettarti prodigi. Inzaghi raccoglie il massimo risultato e, insieme, il minimo sindacale con la dotazione di classe che si ritrova, potendo pretendere, per esempio, da Thuram tutta l’accelerazione di un calciatore ghepardo. Insomma, non c’è partita. E senza un dispetto dell’Atalanta, il cui crescendo pure ha rimesso la Lazio nelle sue ristrette ambizioni, non c’è neanche campionato. L’Inter sta, a sedici turni dalla fine, in una forbice tra +4 e +7, davanti alla Juve che non incontrerà più. Non è una lunghezza inarrivabile, eppure da stasera in pochi scommetterebbero sul ribaltone.
Una domanda tuttavia aleggia sulla partitissima, che giunge a quattro mesi dagli Europei: quando finisce, se finisce, la convalescenza di Chiesa? Se Allegri gli dà una maglia solo al 66’ di una gara che vale la stagione, viene da chiedersi se Federico sia ancora il migliore calciatore italiano, su cui investire per vincere in campionato e con la Nazionale, o piuttosto un’incompiuta. Il tecnico bianconero sta dando al quesito una risposta che, francamente, inquieta.