Processo alla Juve: ma quale?

Lo spostamento da Torino a Roma alimenta nuovi dubbi sulla giustizia e agita tutto il mondo bianconero
Alessandro Barbano
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Fino a ieri sapevamo che la Juve era stata condannata dalla giustizia sportiva sulla base di accuse di una procura, ancora non provate in un processo penale. Da oggi sappiamo anche che quelle accuse sono state costruite da una procura incompetente, che in base alla legge non avrebbe dovuto indagare. Vuol dire che adesso il processo si sposta da Torino a Roma, dove un altro pubblico ministero dovrà decidere se chiedere o meno l’incriminazione per i dirigenti del club bianconero. Pensate al paradosso che si determinerebbe se il magistrato romano dovesse decidere di archiviare, così come ha fatto la procura di Bologna per il club emiliano, peraltro concorrente con la Juve nello stesso illecito.

A una certificazione di innocenza sul piano penale corrisponderebbe una durissima condanna sul piano sportivo, ed entrambe farebbero riferimento agli stessi elementi di prova. Perché questa è l’insostenibile autonomia del giudicato sportivo, per come oggi è concepito, e per come si è prodotto in questa vicenda. Da una parte il magistrato sportivo rivendica il diritto ad esprimere un giudizio indipendente e diverso di quello ordinario, dall’altro lo fonda su elementi probatori che derivano unicamente dal processo ordinario e prima che questi abbiano ricevuto una benché minima verifica. Questo è l’esempio più plastico e più deteriore della giustizia sommaria, cioè di una giustizia che la comunità civile, sportiva e non, dovrebbe abiurare.

La stagione che si è appena chiusa con i dieci punti di penalizzazione della Juve, a cui è poi conseguita, in base al verdetto europeo, l’esclusione dalle Coppe, è una pagina oscura dello sport. Che non giova alla sua credibilità. Ma soprattutto è una pagina di autentica ingiustizia. Perché finisce per adoperare due misure per un solo peso. Condanna la Juve e assolve i club che con la Juve hanno concorso allo stesso illecito sportivo. L’esito aberrante e illogico che si produce è un danno per l’intero sistema. Criticarlo non vuol dire ignorare che la piaga delle plusvalenze sia una patologia da contrastare. Perché il fenomeno è diffuso ed è sintomo di una sostanziale intrasparenza dell’economia sportiva. Una forma di sommerso contro la quale è stato però adottato un rimedio peggiore del male. Anziché contrastare le plusvalenze con regole contabili più stringenti, di cui pure si discute da anni, si è scelta la repressione alla cieca. Che è sempre espressione di una giustizia di parte, inquina ancora di più le relazioni e determina un pregiudizio reputazionale all’intero sistema. Senza estirpare il fenomeno. Chapeau!


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