Un tuffo di silenzio alla “memoria”. Juan Cuadrado lascia la Juventus a 35 anni, dopo 8 stagioni, 314 partite, 26 gol, 5 scudetti, 4 Coppe Italia e 2 Supercoppe. Colombiano, terzino poi ala, poi ancora terzino. Independiente di Medellin, Udinese, Lecce, Fiorentina, un soffio di Chelsea e i monsoni di Madama. Se l’arbitro deve essere superiore a tutto, i giocatori vogliono essere superiori a tutti. E, per questo, non si negano nulla. La simulazione è similitudine blasfema, di pancia, strumento grezzo per imbrogliare l’episodio. Molti cascano, moltissimi ci cascano. Ero a Bergamo, l’8 aprile del 1990, quando Alemao crollò “urtato” da una monetina, e Salvatore Carmando, il massaggiatore, gli intimò: «Stai giù». Era il Napoli di Lucianone Moggi e Diego Maradona. Morale: da 0-0 a 0-2 a tavolino fra i moccoli della Dea e lo sdegno di un Milan che intuì dove sarebbe finito il titolo. Cuadrado non ha fatto scuola perché la scuola è sempre esistita. C’era l’accademia fiorentina del Novecento, che aveva in Luciano Chiarugi, ala vecchio stile, la cattedra più ambita e riverita. Ci sono stati Milos Krasic e Adriano, Kevin Strootman e Dries Mertens. Lo spirito è forte ma la carne debole; e la paura che qualche terzinaccio possa attentare ai sacri lombi la spinge, la gonfia. Omar Sivori no. Se notava un bravaccio in agguato, lo anticipava: mai porgo l’altra guancia, figuriamoci l’altra anca. Sputi sentenze, una qualsiasi, chi è senza carpiato. E non chi ne ha commessi, eventualmente, di meno: il vangelo parla chiaro. I carabinieri del Var incalzano il destino cinico e baro. Cuadrado deve la fama all’allenamento del gesto e al peso della maglia. Gene Gnocchi gli ha dedicato fior di “Rompipallone”. Battuta per battuta, i celopuristi gli hanno suggerito il Sudtirol di Bolzano, culla della dinastia Cagnotto, da papà Giorgio alla figlia Tania.
Cuadrado, quel primo gol da "sdraiato"
In fin dei conti, segnò “sdraiandosi” persino il primo gol in bianconero: e al 93’ di un derby, addirittura. Per precipitare, ha bisogno di un “alleato”. Come l’urlo imprigionò la rete di Marco Tardelli al Bernabeu, così il casqué ha condizionato la carriera di Juan. Il simulatore seriale è un kamikaze che ha scelto d’immolare la fede e la fedina per la classifica del suo “Paese”. Consapevole di schiantarsi contro l’esecrazione del tifo (avverso) pur di centrare l’obiettivo, non importa se la bagnarola di una punizione o la portaerei di un rigore agli sgoccioli (come il tuca tuca infantile con Ivan Perisic, il 15 maggio 2021, in Juventus-Inter 3-2). È difficile sradicarlo dalle metafore dei trampolini e delle piscine. Meriterebbe una letteratura più vicina e sensibile ai suoi dribbling, al suo destro, ai suoi estri. Della Juventus di Andrea Pirlo era diventato una sorta di regista in maschera. È stato un eccesso ambulante: capace di recitare Dante e di scrivere cuore con la q. Adesso che sta per “tuffarsi” in una nuova avventura, i moralisti sono tristi. Lontano dalle vignette della Continassa non sarà più lo stesso svenimento (e investimento). Per Groucho Marx, «il segreto della vita è essere onesti e comportarsi bene. Se riesci a simulare tutto questo, ce l’hai fatta». E vai.