Juve in vendita? Normale che quanto accade alimenti voci di ogni tipo. L’ultima arriva da Londra ma i contorni sono ancora vaghi. Meglio ragionare sul momento del club, capire se abbia senso valutarne la cessione in acque così agitate. Da un secolo è il giocattolo degli Agnelli. Dei maschi, soprattutto: Gianni e Umberto la guidarono in prima persona. Non a caso, sono il nipote del primo e il figlio del secondo i discendenti oggi direttamente impegnati. Attorno a loro c’è una famiglia ramificata che assiste con distacco alle vicende di una squadra molto identificata (forse troppo) col suo azionista. Il distacco dei parenti si trasforma in fastidio quando Exor deve sottoscrivere - per la sua quota del 68% - robusti aumenti di capitale necessari a coprire gli eccessi di una gestione avventuratasi, dal 2018, in overspending sistematico. Come pure i manager sembrano ammettere in qualche conversazione intercettata. Vero che i soldi nessuno li mette in prima persona, ma il 68% conta per quasi mezzo miliardo dei 700 milioni fagocitati dalla Juve negli ultimi tre anni. Exor è controllata al 52% dalla holding di famiglia (Giovanni Agnelli BV) in cui tutti gli eredi hanno qualche partecipazione. Normale, per un azionista dotato di raziocinio, chiedersi a che serva tutto ciò. Se per molti tifosi è la cosa più normale del mondo considerare la Juve di proprietà degli Agnelli, le logiche finanziarie suggeriscono altro. Exor è una holding quotata, ha fondi e investitori istituzionali come azionisti di minoranza e un flottante scambiato sul mercato. Controlla aziende tra cui Ferrari, Stellantis, Cnh Industrial, Iveco, Louboutin, Gedi: un portafoglio da 36 miliardi di cui Juventus rappresenta solo l’1,5%. Se Exor immobilizza risorse in una società, l’investimento deve rispondere solo a una logica: creare valore. Con questo criterio, in 13 anni ha moltiplicato per 8 il valore degli asset assegnando agli azionisti un rendimento del 17% annuo e battendo molti indici azionari globali. Questo criterio deve seguire nella selezione delle partecipazioni, non certo passioni personali o la prosecuzione di tradizioni familiari, perché, in tal caso, i soci di Exor potrebbero legittimamente invitare l’azionista di maggioranza a godersi le sue passioni coi propri soldi anziché coi loro.
Ciò implica che il piano industriale dell’azienda controllata deve contenere prospettive di ritorno sul capitale, altrimenti l’investimento non ha senso. Il giorno in cui tali prospettive non fossero chiaramente delineate, Exor dovrebbe vendere la Juventus e si tratta di capire se sia arrivato quel giorno. Nella prima fase della gestione di Andrea, il percorso della Juve era in linea con le aspettative di Exor: internazionalizzazione e valorizzazione del brand, ascesa del fatturato. Tutto riflesso in una crescita vertiginosa del valore di mercato: da 75 milioni nel 2010, quando Andrea sale alla presidenza, a un miliardo nel 2017 prima della finale di Champions League. Si impenna con CR7 quando si pensa di fare lo scatto decisivo per entrare tra i top club internazionali, fino al picco: 1,7 miliardi nel 2019. Tutto perfettamente in linea con le aspettative di Exor: espansione del fatturato, crescita a due cifre del valore. Il traguardo a cui puntare era la Superlega, la consacrazione definitiva tra i padroni del calcio e soprattutto una torta immensa da dividere in pochi. Intanto lievitano i costi immobilizzati nella rosa, il cui valore contabile esplode, dai 300 milioni del primo scudetto di Conte ai 729 dell’ultimo di Allegri (con CR7). Una follia perché un asset così imponente va finanziato, dunque sale il debito ma anche lo sforzo degli azionisti, chiamati a versare 700 milioni in due giri di aumento del capitale soprattutto per coprire 600 milioni di perdite in quattro anni. Inizialmente giustificati dalla crescita del valore d’impresa, gli investimenti rispondono a logiche sempre più vaghe.
Oggi la Juve capitalizza in borsa solo 680 milioni e non si comprende il suo progetto. Exor deve fare molto più che ricostituire l’organigramma societario: deve trovare una buona ragione per giustificare ai propri azionisti la presenza della Juve nel suo portafoglio. Trovare una mission al suo business, fissargli un traguardo e indicarne la strategia d’uscita: se vendesse oggi, questo lavoro lo farebbe il compratore. La Juve vale più di 680 milioni perché la quota di controllo ha un premio sul valore del flottante ma il mercato del calcio, seppure appetibile per molti, è affollato da una massiccia offerta di brand i cui proprietari vogliono uscire. Liverpool e United in testa, ma anche l’Inter è in vendita e non sarà facile realizzare le ambizioni economiche di tutti. Se Exor uscisse oggi, otterrebbe un ritorno ancora molto soddisfacente ma il tempo è nemico del rendimento finanziario. Più un’azienda resta in portafoglio, più il capitale che vi è investito deve rendere. Oggi la Juve è una storia affascinante: l’unico club posseduto, per oltre un secolo, dalla stessa famiglia. Ma Exor non è più un’azienda di famiglia.