Di fronte a questa Juve piccola piccola, che naufraga tra il palleggio essenziale ma tre volte più veloce del Chelsea, l’idea della Superlega cessa di essere una provocazione per diventare una millanteria. Mai il divorzio tra le pretese societarie e le ragioni del campo è parso così evidente. A Londra i limiti dei bianconeri si mostrano per quello che sono: non incertezze di stagione, ma deficit strutturali. Riemergono ogni volta che l’asticella della qualità si alza oltre una certa soglia.
Con il centrocampo che si ritrova, Allegri può fare appello a tutta la sua astuzia tattica e alle sue capacità di motivazione, ma difficilmente vincerà la mediocrità che affligge la sua squadra. E che rappresenta la cifra tecnica, tattica e agonistica di un centrocampo slabbrato, confuso e inconcludente, in cui solo Locatelli sembra essere all’altezza del compito. La mediana inglese certifica l’inadeguatezza di Rabiot e Bentancur, la leggerezza di McKennie, l’appannamento di Alex Sandro, ombra dell’esterno brillante di qualche anno fa, l’intermittenza di Cuadrado. Jorginho, James, Ziyech e Hudson Odoi di primo acchito controllano, poi dominano, infine dilagano, in un crescendo a cui lo stesso risultato sembra estraneo. Poiché né lo svantaggio, né il raddoppio e il tris scuotono l’orgoglio bianconero. Anzi, man mano che i minuti passano, il divario si fa una distanza incolmabile, anche se nel frattempo ai titolari inglesi sono subentrate le riserve. Il poker a tempo scaduto è la fotografia più fedele della Juve di Allegri: la postura maldestra di McKennie, che fallisce lo stop con il piede sbagliato, liberando un indomabile Ziyech per l’assist a Werner, è la metafora della goffaggine che si confà a una squadra di media classifica contro un avversario difficile.
Questo per dire che non è una serataccia. Ma la più normale e logica serata della Juve postronaldiana, una carovana raccogliticcia, svogliata ancorché strapagata. Il giudizio su Chiesa e Morata risente di questa inconsistenza del dorso bianconero: per qualunque attaccante sarebbe difficile giocare con un centrocampo così, contro un avversario che raddoppia ogni marcatura con una velocità doppia della tua. Poi c’è il Chelsea, che è uno scrigno di gioielli da esibire un po’ alla volta, per non esagerare. Così l’impatto dell’infortunio di Kanté viene assorbito dalla generosa prova di Loftus Cheek. Così l’assenza di un gigante come Lukaku e il rimpiazzo non brillante di Pulisic sono compensati dal dinamismo, ficcante e mai lezioso, dei trequartisti e dalla spinta costante sulle fasce di James e Chilwell. Così un talento come Mount, dato per titolare fino a poche ore prima della gara, viene risparmiato per la Premier. Chiunque giochi la palla, questa viaggia con una velocità e una semplicità che sono il linguaggio di una leadership continentale.
La Juve ha, nel girone di Champions, gli stessi punti in classifica del Chelsea e la qualificazione agli ottavi in tasca. Può tornare da Londra convinta che ancora tutto sia in gioco. O piuttosto può iniziare a farsi una ragione che la transizione in atto richiede una riforma radicale di uomini e metodi. Alla quale bisogna applicarsi da subito con visione e, si spera, umiltà. Poiché le strategie fin qui perseguite hanno portato solo un simulacro di quella dimensione europea a cui pure la dirigenza bianconera anela. Talvolta il pessimismo della ragione guarda più lontano dell’ottimismo della volontà. E vede che la squadra stracciata dal Chelsea è niente di più e niente di meno di ciò che offre di questi tempi il calcio italiano di club: un’ambizione che, fuori dal rassicurante recinto nazionale, si scopre una velleità.