Inter, ci vuole proprio la pazienza di Ausilio

Leggi il commento sul lavoro del dirigente nerazzurro, fondamentale per la costruzione della squadra campione d'Italia
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Il vero Ausilio (con la maiuscola, capirete presto perché, ma qui inteso come aiuto) per l’Inter e per Beppe Marotta di nome fa Piero, lavora da una vita con i colori del club campione d’Italia e può contare su un paio di caratteristiche che lo rendono tra i più riconoscibili della categoria. Piero da Cinisello è uno di quelli che esibiscono, con orgoglio, le proprie radici che si diffondono, per via materna, anche in Calabria: di qui probabilmente quello sguardo torvo quando avverte un clima di ostilità intorno alla sua Inter e al proprio lavoro. La seconda caratteristica è una virtù essenziale per chi lavora nel calcio: sa come si coltiva la pazienza. Partito appunto da Sesto San Giovanni, in compagnia di Pierluigi Casiraghi (l’attuale suocero di Correa, ora in prestito al Marsiglia), Piero arrivò al settore giovanile dell’Inter, con l’incarico di segretario, chiamato da Mario Mereghetti e, armato di cristiana pazienza. Una alla volta ha preso a salire tutte le scale dell’organigramma societario arrivando fino all’area tecnica e incrociando un bel numero di presidenti e dirigenti. Per capire di che pasta è fatto poi ha pure conseguito la laurea in giurisprudenza (2004), titolo che nella platea dei suoi colleghi non è molto diffuso: sapere anche di codici e pandette può forse aiutarlo nelle trattative con quei mandrilloni di agenti e procuratori.

Quando Zhang, appena sbarcato nella Milano neroazzurra, decise di fare da solo (con altro procuratore) arrivarono Joao Mario e Gabigol che costarono una tombola ma non furono esattamente degli affari. Anzi. Ausilio è rimasto al suo posto e si è guadagnato la fiducia realizzando con Beppe Marotta una coppia di fatto calcistica con risultati brillanti nella stagione complicata dei calcio-mercato a saldo zero e della rincorsa ai parametri zero. «Nella finale di Istanbul ne abbiamo schierati 7» ama segnalare con malcelato orgoglio. E in materia di pazienza esibisce il caso di Dimarco, passato attraverso cinque prestiti e altrettanti allenatori, alcuni dei quali (ma non è Antonio Conte) gli fecero sapere che “non è da Inter” salvo capire esattamente il contrario. Arrivò anche a un passo da Leao (viaggio a Londra) ma senza mai parlare col portoghese che poi scelse il Milan. Con Lukaku ebbe una telefonata turbolenta quando scoprì che il belga s’era promesso a destra (Juve) e a sinistra (Milan) prima di trasferirsi a Roma. «Il rimpianto vero è aver rinunciato al rinnovo di Dzeko» la confessione più autentica. Adesso cammina su due stampelle per uno strappo muscolare di 5 centimetri: il fisico non è mai stato il suo pezzo forte, a 18 anni si ruppe il ginocchio e concluse una modesta carriera con la Pro Sesto. Si è rifatto andando in Germania a convincere Thuram che giocava ala. «Tu farai il centravanti» gli promise. E tutto sommato ci aveva preso.


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