Ormai ci siamo abituati a vedere Como e il Como con altri occhi. Per noi disperati che lottiamo febbrilmente contro i debiti, è praticamente un angolo di Arabia, magari con molta più acqua, certe volte fino alle caviglie quando il lago fa il prepotente e deborda. Restando al calcio e agli affari, di fatto la stessa cosa, in quel ramo del lago di non sembrano esistere difficoltà: quello che serve, quello che piace, si compra. Non parlano e non pensano più così neppure nelle grandi società metropolitane, da noi. Solo a Como. Il tessuto economico e sociale non è storicamente depresso, dai re della seta allo star system rinchiuso nelle dorate tane, bella vita e bella gente hanno sempre piantato le tende lungo le sponde. La grande novità, la vera novità, è il trasloco di questi costumi e di questo slang nella squadra di calcio, fino a ieri immancabilmente e radicalmente provincia. Non più, non adesso.
Como, i fratelli Arthono
La storia è breve e si racconta in un amen: nel 2019 arrivano in zona due fratelli indonesiani, Budi e Bambang Arthono, i cui nomi europeizzati risultano Robert e Michael. Non due immigrati qualunque: hanno 83 e 84 anni, inizialmente ramo tabacco, 7 figli pronti a raccoglierne l’eredità, col tempo si ritrovano un patrimonio rispettivamente di 25 e 26 miliardi in dollari, difatti stazionano tra i 100 uomini più ricchi della terra. Innamorati del lago e dell’aria di lago, incuriositi da questa faccenda del calcio, prendono la società morente in serie D per 850mila euro e nel giro di 5 anni eccola qui, al centro del mondo.
Como, il metodo
Il metodo? Lì a 50 chilometri c’è l’altra faccia della provincia, Bergamo, che ha insegnato come si fa seguendo l’altra strada: spendere poco per giocatori sconosciuti e trasformarli in pollame dalle uova d’oro. Qui, storia opposta: si prendono solo nomi noti e collaudati, senza badare a spese. Se il tecnico Fabregas si sveglia una mattina con la fissa di Mbappè, tipo Trump che quando si sveglia vuole annettersi il Canada e magari l’Australia, c’è caso che qui nessuno lo prenda per matto: il padrone potrebbe persino recapitarglielo al campo. Non siamo ancora a questi livelli, non ancora a Mbappè, ma ci stiamo avvicinando di molto. Il sogno impossibile di ieri, quando il Como lanciava botti da festa patronale se piazzava alle grandi i Tardelli e gli Zambrotta, è la realtà possibilissima di oggi. La partita al Sinigaglia ormai conta più della prima a teatro, girano belle gioie da schiodare i fotografi di mezzo mondo, ritrovarsi in tribuna è meglio che al circolo del golf, magari non capendo proprio tutto di quel che succede in campo. Ma il rito si consolida, bisogna esserci: attori, maggiorate, vipperia varia e anche avariata. Si dice che allo stadio ormai sia una mezza Hollywood, di questo passo diranno di Hollywood che è una mezza Como. Cinque anni fa la serie D, poi il meteorite. Oggi il modello e la moda Como. Fa bene tutto questo al calcio italiano? Dillo a quelli che frignano perchè il nostro calcio si vende ai capitali stranieri. La verità è una: puoi permetterti di fare lo schizzinoso con i capitali stranieri se hai le carte in regola con i capitali tuoi. Ma se sei squattrinato è meglio spalancare le porte e farli accomodare a capotavola. L’alternativa è una processione di libri in tribunale.