Maggio ’99, Vincenzo è sdraiato sul lettino accanto al mio e purtroppo non ci troviamo al sole di Riccione o di Ibiza, ma nella sala della riabilitazione dell’Isokinetik di Bologna. Dal lettino alla cyclette il passaggio è rapido e automatico. Antonio, il fisioterapista, segue entrambi. Io ho un tendine d’Achille stracciato giocando al Centro d’allenamento del Marsiglia (7 a 1 per i giornalisti francesi, una pena) a poche ore dalla semifinale di Coppa Uefa tra l’OM e il Bologna di Mazzone; lui è reduce dall’intervento al crociato anteriore del ginocchio destro. Umore due novembre. E allora come stai?, hai sentito tanto dolore?, e con Prandelli come va (lo allena a Verona)?, ne hai per molto?, Zazza, ma non era meglio se te ne restavi a casa bello divanato? In effetti...
Vincenzo sarebbe tornato in campo dopo qualche mese.
Vent’anni dopo me lo sono ritrovato allenatore, un giovane e bravo allenatore, uno con le idee giuste, come si è soliti dire: Arzignano, Trapani, Spezia, Fiorentina, tre finali perdute ma comunque raggiunte, e Bologna dentro un’estate di attese, divorzi pesanti e tormenti.
Avvicinato dal Napoli, poi dal Torino, Sartori si era mosso prima di tutti, ma l’aveva trascurato nel periodo in cui non si sapeva ancora se Motta sarebbe rimasto: da tempo dirigente e tecnico non si parlavano.
Il Bologna è tornato a farsi vivo subito dopo l’addio di Thiago e non è stato semplice convincere Italiano a riprendere il discorso. Perché Vincenzo è un tipo particolare, qualche spigolo e tanta umiltà, uno che si è sempre fatto un mazzo tanto per guadagnarsi spazio e credibilità.
Per Salvatore Sirigu, che di allenatori se n’è sciroppati parecchi, alcuni dei quali buoni buoni, «è tra i migliori nel lavoro sul campo». Secondo solo a Conte.
Un tipo particolare, dicevo: parla, non straparla, incassa, rimugina e raramente reagisce, mai come penseresti. A una cosa tiene però tantissimo: "Da buon siciliano, sono di Ribera, provincia di Agrigento, so cosa significa portare rispetto al prossimo. Non hanno nemmeno avuto bisogno di insegnarmelo i miei che si trasferirono in Germania, dove sono nato, e dove i miei nonni lavoravano".
Italiano e orgoglioso.
"Un pochettino".
Permaloso.
"La vita ti invita a cambiare, ci sto lavorando. In questo ambito, nel lavoro, la permalosità è controproducente, così come il rancore. Ai ragazzi lo ripeto spesso, energie sprecate".
Diffidente.
"Il giusto".
Dài, che mi sento tanto Crepet: insicuro.
"Sono nel calcio da trentadue anni, la materia è complessa e molto articolata. Col tempo qualche aggiustatina qua e là l’ho data. Quando lavoro sul campo ho le mie certezze, le mie conoscenze. Fuori, alcune insicurezze devo cancellarle".
Bologna-Fiorentina, dopo-partita. Un uomo estremamente equilibrato e sensibile, Daniele Pradè, col quale hai lavorato assai bene per tre anni, se ne è uscito con queste parole: "Ho capito tante cose della persona. Delusione totale, ci ha mancato di rispetto".
"Io ho cercato di andar via velocemente per non creare problemi. E non avevo mancato di rispetto a nessuno, tantomeno a una squadra, a ragazzi, a una tifoseria, a una città che mi hanno dato tanto. Quelle parole mi hanno sorpreso e fatto male". Si blocca, riprende: "Dopo la gara ho fatto le condoglianze a Palladino - in conferenza, anche a Radio Rai - perché aveva appena perso la mamma e ho espresso il mio dispiacere per quello che era accaduto a Bove. Cos’altro avrei dovuto dire o fare? A chi avrei dovuto telefonare? Il rispetto... Ci tengo a sottolineare una cosa: in otto anni da allenatore professionista non sono mai stato espulso. Ho sempre rispettato colleghi, avversari, tifosi, arbitri. Sul controllo delle emozioni durante la gara si può e si deve sempre migliorare. Non sono certamente l’unico che vive i novanta minuti in modo assoluto. Non ho mai dimenticato una frase di Maradona: “Quando sei in campo la vita sparisce, i problemi spariscono. Sparisce tutto”... Pensa che per merito mio venticinque anni fa fu cambiata addirittura una regola sulle esultanze".
Aspetta, con Pradé vi siete più sentiti?
"No".
D’accordo, racconta.
"Verona-Inter, nel 2000, segno il mio primo gol in serie A e perdo letteralmente la testa, avevo vent’anni, il primo gol, capisci? E contro l’Inter poi. A quel tempo non si poteva uscire dal rettangolo di gioco. Io passo il Rubicone al Bentegodi, dove c’era la pista d’atletica e rimedio il secondo giallo da Rodomonti, mi pare, l’altro l’avevo preso pochi minuti prima. Il giorno dopo si accende il dibattito sull’argomento e la regola viene modificata. A Marassi o a Cesena non sarebbe successo. Venivano penalizzate le squadre che giocavano negli stadi con la pista d’atletica".
Vincenzo, nel giro di una sola settimana sei riuscito a chiudere i conti con le ombre di Motta e Palladino, pareggiando a Torino – e in che modo – e battendo alla grande la Fiorentina.
"Abbiamo giocato benissimo. Mi brucia quella col Verona, non si può perdere una partita del genere, non si può, non si può".
Quanto è stato difficile subentrare a Motta?
"Bologna era una delle panchine più bollenti dell’estate, Motta aveva fatto un grande lavoro, il bel gioco, la Champions dopo sessant’anni. Ho parlato più volte con Sartori, che conoscevo, e con Fenucci, sono stati chiari anticipandomi che ci sarebbero state delle uscite importanti e inevitabili".
Sei partito senza Zirkzee, né Calafiori, con Ferguson ancora indisponibile e hai perso subito Aebischer e El Azzouzi… In altre parole, con un Bologna indebolito.
"Ma qui ho trovato un gruppo serio, che ha la cultura del lavoro, forte mentalmente. Thiago e il povero Sinisa avevano piantato radici robuste e profonde...".
Hanno fatto la bocca anche ai piani alti.
"Il presidente Saputo ha fissato l’obiettivo: restare in Europa, quale Europa non lo possiamo ancora sapere".
Sartori è già al mercato.
"Il direttore mi ha detto che tutto si migliora".
Ci ha provato addirittura con Chiesa.
"Allora è di parola".
Ma Federico vuole restare a Liverpool fino a giugno. Alcuni tuoi giocatori sono cresciuti parecchio.
"Dominguez e Castro su tutti. Il primo è stato una sorpresa, da quando è arrivato a oggi è cambiato anche come atteggiamento, ha personalità, l’uno contro uno, che io cerco di isolare, infiamma il pubblico e a me i giocatori come lui piacciono da sempre, può diventare un top. I progressi di Castro sono costanti, mi ricorda il primo Lautaro".
Negli anni di Firenze, tre finali raggiunte ma anche perdute: ti hanno rimproverato di non saper gestire i minuti conclusivi, di insistere nella proposta e correre rischi inutili.
"Delle tre finali, quella che fa più male è l’ultima, con l’Olympiacos. Avversario greco con la finale in Grecia, ha avuto la tavola apparecchiata all’80%... Io più di una volta ho messo il difensore in più, il centrocampista in più, quando arrivava l’alert".
Anche a Torino, con la Juve, l’alert non è arrivato.
"Zero".
Troverai una Roma stracarica.
"Ma Ranieri non aveva attaccato il patentino al chiodo? Ha aggiustato le cose, vinto il derby, ha una squadra fortissima e un giocatore come Dybala che illumina".
Sei l’espressione di quale genere di calcio?
"Io guardo milioni di partite, prendo un po’ da tutti. Non farmi fare dei nomi".
Mi bastano i cognomi.
"Fanc...".
Alla faccia del rispetto.
"Questa è confidenza da conoscenza di lunga data".
Da sopravvissuti al calcio.
"A Verona ho avuto allenatori dai quali ho tratto più di un insegnamento, Cagni, Malesani, Prandelli, Delneri. Posso chiederti un favore?".
Eccone un altro.
"Non fate un titolo forte sulla Roma, sennò qui mi tritano".