Chi non si mette la maschera, chi non si nasconde la verità, chi chiama le cose con il loro nome, questo chi sa bene che là in curva va in un certo modo da troppi anni. Ma se sono troppi, la prima ragione sta nella rassegnazione dell’intero sistema, che questa porcheria l’ha considerata normalità. Adesso che scorre il sangue ‘ndranghetista, finalmente un magistrato e qualche agente hanno deciso di metterci mano, puntualmente fomentati dal coro ipocrita degli indignati, gli ex rassegnati e sottomessi oggi in prima fila a berciare era ora, basta con questo schifo, tutti in galera. Ma è proprio in questo momento di moralismo isterico e peloso che bisogna partire dall’origine: dal brodo primordiale in cui ha sguazzato l’ultrà sanguinario e capocosca, sempre più gonfio di sé stesso, sempre più sfacciato grazie al silenzio, all’accettazione, alla nostra idea codarda e opportunista di normalità. Non era normale niente. Non è mai normale che dei tagliagole prendano in mano gli stadi e li gestiscano come una piazza di spaccio, come una via del pizzo, come un locale del riciclaggio. Non è normale e dunque non può essere normale che tutti, nelle società e nelle squadre, cadano adesso dal pero. Magari, roba da piegarsi in due dal ridere, simulando pure la parte delle vittime.
Ola e standing ovation a Spalletti
E allora ola e standing ovation per Luciano Spalletti, che magari non ci farà rivincere il Mondiale, ma che sa dire parole tombali. Nel suo spallettese a dir poco articolato, il ct diventa spesso oscuro e criptico: eppure, su questa faccenda della curva e di Inzaghi, sulla perversione dei filarini tra farabutti e addetti ai lavori, su questo è chiaro e lineare livello dieci. Soprattutto, proclama senza tanti giri di parole la più solenne delle verità: sbattere giù il telefono si può. Tenere tutti al loro posto non tocca allo Spirito Santo. Tocca a chi detiene la responsabilità, anche a costo di non essere così simpatico al caloroso pubblico, anche a costo di rimetterci il posto, perché si sa che poi magari il presidente dà più retta a quelli, perché non vuole cercarsi grane. Si parla con tutti, dice giustamente Spalletti, ma su certi confini non deve esserci confusione. E certo che è scomodo. E certo che può persino diventare rischioso. Chi lo nega. Eppure va fatto. Sempre che davvero si voglia bonificare un minimo questa palude malsana. Se finora gli ultrà si erano giustamente convinti di essere la massima potenza, di avere davvero in mano i destini del calcio, bisogna che comincino a trovare qualche semaforo rosso. Il primo non può che essere quello dei dirigenti, degli allenatori, dei giocatori. Mette paura, questa cosa? Sì, mette paura. Viviamo pur sempre nella nazione del chi te lo fa fare, la nazione che si gira dall’altra parte, la nazione in cui non conviene fare gli eroi. E infatti la vediamo, questa nazione: ormai chi fa il proprio dovere, al proprio posto, dicendo qualche no, passa per matto. O comunque per un patetico masochista. Ma se l’edificio va ricostruito, il primo mattone è quello di Spalletti. Tenersi gli ultrà in linea non è normale. Normale è sbattere giù il telefono. Così come dire no è possibile. Dopo tutto, nella vita si tratta solo di scegliere: se fare sempre quello che conviene, o semplicemente quello che è giusto.