Serie A, le proprietà straniere si prendono il calcio

La difficoltà nel costruire  nuovi stadi, l’incertezza del risultato e i diritti tv allontanano gli imprenditori dal campionato. Gli italiani sono sempre di meno
Giorgio Marota
6 min

Arrivano in Italia attratti dall’investimento sul mattone, poi si scontrano con la lentezza della burocrazia. Sono i proprietari stranieri - aziende, holding, fondi, cordate - che tentano la fortuna nel nostro calcio, prima di fare in qualche caso marcia indietro una volta appurato quanto sia difficile costruire uno stadio. Spinti comunque dal loro proverbiale ottimismo, gli americani hanno colonizzato la Serie A: oggi sono 8 e potrebbero diventare 9 se il miliardario Mario Joseph Gabelli acquistasse il Monza. Sull’altra riva del fiume ci sono i vecchi patron nostrani, stanchi del grande circo che ruota attorno al pallone: diversi, tra loro, cominciano a preparare gli incartamenti per i potenziali compratori, intravedendo lo scenario di una meritata pensione. In Italia non ci sono più i Moratti, i Berlusconi, i Cragnotti, i Sensi, i Tanzi, i Della Valle, i Gaucci e i Matarrese. O forse sì, ma sono talmente pochi da apparire come mosche bianche nel sistema: oggi si chiamano Lotito, De Laurentiis, Giulini, Sticchi Damiani, Setti, Pozzo, Corsi; gli Agnelli sono al loro posto da 100 anni e in B c’è anche un animale raro come Cellino, che c’era già nei gloriosi Novanta. Tutte le altre operazioni di compravendita tentate o concluse dimostrano come il nostro calcio sia in offerta al miglior acquirente.

Dal Monza al Genoa

Tornando agli americani, anche l’italianissimo Monza sognato da Berlusconi nel 2018 - e costruito passo dopo passo insieme al braccio destro Galliani - potrebbe diventare made in Usa se Gabelli, fondatore di Gamco Investors, società di New York che gestisce circa 31 miliardi di dollari, concludesse l’acquisizione del club che in primavera era stato molto vicino a finire nelle mani di Orienta Capital Partners. La squadra della Brianza seguirebbe le orme di Fiorentina, Genoa, Inter, Milan, Parma, Roma e Venezia, le altre società di A a gestione “stelle e strisce”. Del blocco americano farebbe parte a tutti gli effetti anche Saputo con il suo Bologna, oltre all’Atalanta, che dal 2022 è passata per il 55% delle quote a Bain Capital, anche se una fetta importante è rimasta alla famiglia Percassi che ne continua a sviluppare i progetti sportivi. Se tutte queste realtà si unissero, e includessero anche i ricchissimi indonesiani del Como, potrebbero fare la voce grossa in assemblea di lega e indirizzare destini politici e programmi futuri dell’intera categoria. Molto spesso, però, preferiscono concentrarsi sul loro business. Ci sono americani anche in B (Pisa, Cesena e Spezia) e in C (Picerno, Spal e Triestina) dove sono approdati di recente anche australiani (Catania) e argentini (Perugia). In Lega Pro sono cambiate 9 proprietà in meno di un anno e mezzo. Oltre al Monza, nel massimo campionato anche il Genoa, sotto il controllo di 777 Partners, è sul mercato: una banca d’investimento ha il mandato per vendere il club perché il fondo avrebbe diverse questioni aperte con i suoi creditori. Persino Corsi, patron dell’Empoli dal 1991, starebbe cercando un socio tramite i consulenti di Centerview. Poi ci sono le voci, vere o presunte: a Roma c’è chi si dice pronto a scommettere su un addio di Friedkin qualora il progetto dello stadio di Pietralata non andasse a buon fine (il predecessore Pallotta mollò dopo il pantano di Tor di Valle), ma dal club giallorosso hanno sempre smentito questa versione rinnovando a più riprese l’impegno dei proprietari come «custodi del club». Non è escluso dai rumors il Milan, altro feudo statunitense. Di sicuro entro il 31 agosto RedBird dovrà rimborsare Elliott del prestito erogato due anni fa per l’acquisizione del club (circa 680 milioni inclusi gli interessi). È passato, anzi si è letteralmente incastrato, su una strettoria simile Zhang con l’Inter: il cinese non ha potuto rimborsare il fondo Oaktree, che in estate si è insediato a viale della Liberazione.

I modelli

Movimenti e fibrillazioni portano a una conclusione: il modello del calcio europeo, legato soprattutto all’incertezza del campo, non sembra il più adatto alle strategie dei fondi d’investimento che per loro natura devono garantire dei ricavi a chi investe. Senza infrastrutture tutto diventa più complicato perché il 30-40% del fatturato continua a dipendere dai risultati: andare o non andare in Champions, ad esempio, è decisivo per le realtà di prima fascia tanto quanto lo è per le medio-piccole salvarsi o retrocedere. Gli americani sono viceversa abituati ai loro parametri di economia sportiva e replicare quell’impalcatura in Europa, soprattutto in un pezzo di Europa in crisi come l’Italia, appare complicatissimo. Valga l’esempio dell’Nba: non si retrocede, le arene sono di proprietà, c’è un salary cap e i diritti tv sono garantiti su molteplici annualità. Si sentono più affini alle nostre peculiarità gli arabi, i quali però preferiscono riversare le risorse in Saudi Pro League - al netto dell’esperimento Newcastle - anziché esportarle. Nel mezzo dell’incertezza c’è anche chi resiste e rilancia. Il boss del Parma, Krause, giusto ieri ha annunciato di aver preso il controllo delle quote appartenenti a “Nuovo Inizio”, il gruppo di imprenditori protagonista della rinascita del sodalizio dopo il fallimento del 2015, arrivando così a possedere il 99% del club.


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