Allenatori, le ultime parole famose

Il commento sulla prima giornata di Serie A
Roberto Beccantini
4 min

Il battesimo del campionato è sempre una cerimonia suggestiva e divisiva. Padri e padrini lo coccolano e se lo contendono. È il periodo dei fioretti, delle letterine a Babbo Mercato. Una squadra ha cambiato tecnico? Eccoci tutti lì, mascherati da Ris, a cercare il Dna della posizione, per esempio, di Christian Pulisic, se e quanto un po’ più a destra o un po’ più a sinistra rispetto ai grafici di Stefano Pioli. Si preleva l’itinerario, lo si libera dei tratti comuni e lo si esamina al microscopio: nella speranza di poter urlare che, fin dalla “prima”, il Milan di Paulo Fonseca ha sterzato da così a così (invece no, specialmente in difesa), e il Napoli, con Antonio Conte, da cosà a cosà (per carità). Indizi. Impronte. Testimonianze. Il luminol per isolare il sangue di uno schema, in attesa di verificare a chi appartenga: se al nuovo inquilino, come nel caso del Toro di Paolo Vanoli, evviva; se ancora al vecchio, pazienza. La “scena del crimine” circondata e presidiata, allo scopo di impedire che gli orecchianti ne inquinino le eventuali differenze, ammesso che già siano emerse.

Allenatori, le ultime parole famose

E le ultime parole famose. O le penultime. Colonna sonora dei convegni che organizziamo per fissare gerarchie e filosofie. Silvano Prandi, guru del volley, ammoniva: «L’allenatore deve avere la qualità morale per sapere che i maestri sono i giocatori, non il contrario». Ops. È uno slogan che ci allontana dall’università di Coverciano per portarci tra le aule di un dottore, addirittura. Un dottore vero, in Scienze economiche: Fulvio Bernardini. Scudetto con la Fiorentina nel 1956, scudetto con il Bologna nel 1964. Il suo mantra era: «Giocate come sapete, perché voi sapete come si gioca».
Artigiano della panchina, Alberto Cavasin annunciava la formazione ai suoi partendo, curiosamente, dal drappello destinato alla tribuna. A Lecce, si tolse lo sfizio di infliggere un rotondo 2-0 alla Juventus di Carlo Ancelotti. Il quale Carletto evita le compagnie pontificanti e predilige i cortei svolazzanti di Vinicius e (Hey) Jude Bellingham. I cartelli di Helenio Herrera e le requisitorie di José Mourinho hanno scortato le vigilie non meno delle massime di Nereo Rocco: «Gli allenatori? Dal lunedì al venerdì, i xe tuti olandesi. Al sabato, i ghe pensa. La domenica, giuro su la mia beltà, tuti indrìo e si salvi chi può». Il dolce stil novo ne ha adeguato l’esercizio senza tradirne la memoria.

Il carro di Julio Velasco

Ammainato “corto muso”, i termini più gettonati restano: armonia, bellezza, intensità (al governo da un trentennio abbondante), velocità, onestà. Che italiano sarei se non salissi sul carro di Julio Velasco, il fenomeno della “generazione di fenomeni” e delle girls olimpiche e olimpioniche (loro sì)? «L’attaccante schiaccia fuori perché la palla non è alzata bene. A sua volta l’alzatore non è stato preciso per colpa della ricezione. A questo punto i ricettori si girano a guardare su chi scaricare la responsabilità. Ma non possono chiedere all’avversario di battere facile, di modo da ricevere bene. Così dicono di esser stati accecati dal faretto sul soffitto, collocato dall’elettricista in un angolo sbagliato. In pratica, se perdiamo è colpa dell’elettricista». Buon viaggio.


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