Una partita dalle tante vite, Inter-Napoli. Troppe, forse. Venti minuti, quelli iniziali, di solo Napoli, in vantaggio con Zielinski; poi un’ora piena di Inter - l’avversario stordito dal rigore - e il risultato è sembrato a tutti definitivo, soprattutto dopo l’uscita per infortunio di Osimhen. A sorpresa, perché di autentica sorpresa si può parlare, considerate le premesse, l’ingresso di Mertens per Insigne ha rilanciato - dando un senso compiuto al tentativo di rimonta - la squadra di Spalletti che nel finale è andata vicinissima al pari tanto con Mario Rui (Handanovic abbagliante) quanto con lo stesso Mertens. E insomma non si è capito chi delle due fosse (e sia) realmente la più forte: l’Inter ha avuto momenti di invidiabile intensità (Darmian, Perisic e Barella i più in palla) mentre il Napoli, prima dell’arrembante finale, si è mostrato a lungo frenato dall’imprecisione di battuta di Ruiz, dalle tinte acide di Insigne e dagli imprevisti cali di tensione di Anguissa. Due novità su tre. Inzaghi esce così rafforzato dalla sfida che avrebbe potuto vederlo allontanarsi dalla corsa scudetto. Spalletti è sempre davanti, ma ha l’obbligo di soffermarsi sullo spiazzamento registrato tra l’1-1 e l’1-3, per evitare che si ripeta. Inoltre, se vuole continuare a pensarsi da primato, non può permettersi un Insigne dimezzato come quello visto ieri e nelle ultime due uscite della Nazionale: gli effetti sembrano diretti.
Napoli e Milan a 32, l’Inter a quattro punti, l’Atalanta a sette: il campionato delle imperfette conosciute resta piacevole e di livello più che accettabile, e conferma di non avere un destino chiaro: non essendosi manifestate superiorità tecniche evidenti - solo qualche “dipendenza” - la differenza la stabilirà la capacità di gestione delle micro-crisi, la faranno nervi e maturità.
João Pedro, i buchi e le toppe
João Pedro, Ibañez e Luiz Felipe dopo Emerson, Toloi e Jorginho, senza scendere giù giù fino a Paletta, Eder, Schelotto, Ledesma e Franco Vàzquez: chi adesso potrebbe essere reclutato, chi si autocandida, chi toccò l’azzurro e chi è già parte integrante del gruppo della Nazionale campione d’Europa ma a forte rischio di esclusione da Qatar ‘22. Il tema non è nuovo, lo rende attuale - appunto - il timore del Paese di dover rinunciare per la seconda volta consecutiva alla rassegna mondiale, creando un vuoto non di otto ma di dodici anni, dal 2014 al 2026. Premesso che João e omologhi, se in possesso delle credenziali necessarie, hanno il diritto di ottenere la doppia cittadinanza e di concorrere a una maglia azzurra, ripeto che sono da sempre contrario alle “oriundizzazioni”, pratica chiaramente opportunistica, per ragioni da ricondurre al progressivo e, a questo punto, volontario impoverimento della nostra scuola calcistica.
Per pura curiosità, sono andato a rileggere la formazione che nel gennaio del ’58, sempre a Belfast, perse con l’Irlanda del Nord e non si qualificò al Mondiale di Svezia. Il ct Foni schierò Bugatti, Vincenzi, Corradi, Invernizzi, Ferrario, Segato, Ghiggia, Schiaffino, Pivatelli, Montuori e Da Costa. Ghiggia e Schiaffino erano uruguaiani, Montuori argentino e Da Costa brasiliano. Curiosamente, molti anni più tardi il difensore Guido Vincenzi ammise che «iI concetto di patria era già superato anche per noi, i tempi stavano cambiando. Però Ghiggia e compagni non potevano vedere nella nazionale italiana la loro, di patria». La nazionale dovrebbe per definizione rappresentare e portare sul campo i valori non solo tecnici, le qualità e anche i limiti della scuola di riferimento: continuando a riempire i buchi con delle toppe non si risolve, né si cresce. Molto più onesta sarebbe la semplificazione delle naturalizzazioni e la conseguente trasformazione delle nazionali da espressione di una scuola a espressione di un campionato. Il progetto giovani? Le riforme? L’investimento sui vivai e le relative, inutili campagne politico-giornalistiche un tanto al chilo? Arruola un oriundo e passa la paura.