Con 26 euro più le spese di spedizione vi arriva a casa “Il bilancio d’esercizio e l’analisi delle performance nelle società di calcio professionistiche, esperienza nazionale e internazionale”, il libro scritto nove anni fa da Gabriele Gravina per l’editore Franco Angeli. Non so bene quante copie ne abbia vendute oppure regalate (nessuna dalle parti di Palazzo Chigi) ma mi auguro che al presidente non venga in mente di farmene omaggio dal momento che già dal titolo lo trovo noiosissimo.
Proprio partendo da una profonda conoscenza della materia e degli uomini, e dalla valutazione delle attuali condizioni del nostro calcio, Gravina ha impiegato poco meno di un minuto per capire che non c’erano alternative alla ripartenza.
Lo stesso ha fatto Paolo Dal Pino, che non ha mai scritto libri e pur avendo lavorato a lungo nei giornali ha maggiore dimestichezza con i telefoni che con carta e penna. Non è nemmeno un uomo di calcio, Dal Pino, ma sa nuotare nella tempesta, possiede la bussola d’oro della lucidità e sa di quattrini, quanto contano, come si fanno e si proteggono.
L’alleanza tra il 66enne Gravina e il 58enne Dal Pino ha consentito al calcio italiano di coltivare la speranza della sopravvivenza determinando il trionfo delle istituzioni su caste e castine. Non potete immaginare cosa hanno sentito queste orecchie da marzo a oggi: ciance, stupidaggini, illazioni, maldicenze, tentativi di demolizione dei due dirigenti che, dribblando un ostacolo dietro l’altro, quasi fossero coni, sono riusciti ad arrivare interi all’incontro di ieri col ministro dello sport. «Gravina è un democristiano, un uomo di compromessi», il giudizio più generoso. Eppure in questi mesi non ha guardato in faccia a nessuno, ha gustato la sua dose di fiele e rotto antiche amicizie. Interessante, pur se palesemente agiografi ca, la descrizione fatta da uno che il presidente lo conosce bene: «Uno scemo che per 36mila euro lordi, dati in beneficenza, sta lottando contro i mulini a vento per salvare un’industria da 5 miliardi: nonostante questo mondo di folli esaltati, è riuscito a rimettere al centro l’autorevolezza di un sistema che è il vero motore del consenso, è l’immagine di un Paese, prima con la Nazionale e poi con le regole. Le sue parole d’ordine sono coerenza e lealtà, basta leggere il programma elettorale dell’ottobre 2018 per capire che si tratta di un visionario, lui sa perfettamente che se non si puntella il calcio con regole rigide e chiare viene giù tutto».
Anche Dal Pino non è stato risparmiato dai detrattori: «Non decide nulla. Brava persona, per carità, ma deve sottostare ai voleri del consiglio», mi raccontava un presidente di serie A. Curioso, perché parlandone con chi aveva lavorato per anni con lui nel Gruppo Espresso, avevo raccolto informazioni di tutt’altro tenore: «È un decisionista, a volte anche troppo, rapido, istintivo, un vincente».
Immancabile il pippone conclusivo del bravo giornalista convinto di vivere in un altro Paese: comunque vada a finire questa storia, attraverso il virus il calcio italiano ha trovato due personaggi in grado di sviluppare il tema del cambiamento che dovrà passare per il taglio dei rami secchi. Non ne faccio una questione di età, ma di freschezza e di mancanza di vincoli e legacci. Non è più il tempo delle cambiali da scontare, di poltrone e poltrone. Per le battaglie importanti, quelle che riguardano le infrastrutture (stadi, ristrutturazione della burocrazia), la riduzione del numero delle squadre in funzione della sostenibilità dei campionati e la riforma sostanziale della giustizia sportiva (qualcosa è già stato fatto, ma non basta) servono assolutamente nuovi interlocutori.
Il pippone è finito, mi asciugo la fronte.