Interpretazioni zero, conta l’oggettività: così Rizzoli prova a spegnere le polemiche sui rigori della prima di campionato. L’oggettività è solo dei cadaveri, avrebbe detto il grande aforista romeno Emil Cioran. Ma non prendetevela con il designatore, costretto a difendere regole non sue, né con i poveri arbitri, sempre più delegittimati eppure sempre più contestati. In nome della giustizia, lo insegna la storia e lo racconta anche il presente, si compiono i peggiori misfatti. E in nome della giustizia il calcio rischia una singolare forma di suicidio, quella che può ridurlo a un gioco d’azzardo, dove contano troppo la furbizia e la fortuna.
Sono bastati due fotogrammi dei primi 90 minuti della serie A per dimostrare che la nuova norma sul fallo di mani in area sta cambiando le coordinate di questo meraviglioso gioco. Il primo è fi ssato all’ottavo minuto di Fiorentina-Napoli: dopo uno stop di fi anco, Zielinski allarga le braccia per tenersi in equilibrio, Castrovilli ci mette il ginocchio che spinge il pallone contro quelle braccia. Rigore. E sorpresa. Perché lo insegnano perfi no ai pulcini delle scuole calcio che lo stop col corpo si fa allargando le braccia. Il secondo fotogramma è situato sempre all’ottavo minuto, ma della ripresa di Cagliari-Brescia: ritrae Cerri ancora in elevazione dopo aver invano tentato di intercettare un cross in area. Il pallone lo scavalca, viene colpito di testa da Chancellor, che si trova alle sue spalle, e sbatte sul suo avambraccio mentre il cagliaritano ricade. Rigore, e dubbi.
È la nuova regola, bellezza. Formalmente ineccepibile, logicamente inconcepibile. Perché cancella con un colpo di spugna un requisito sostanziale: la volontarietà. Tutto nel calcio poggia su questo mattone soggettivo: da una magia tecnica al senso della competizione, fi no alla ragione di una punizione severa, è il volere che discrimina ciò che è riuscito da ciò che è fallito, ciò che è vincente da ciò che è perdente, ciò che è sportivo da ciò che è antisportivo. Se pure, come si suole dire, la palla è rotonda, e spesso ci mette del suo per contraddire l’intenzione di un gesto atletico, è il primato della volontarietà che fa del calcio un gioco di raffi natissima abilità e di strategica intelligenza, e non un gioco di prevalente casualità. Cosa sarebbe, cosa sarà, il calcio senza la volontarietà?
In nome di questo principio le sanzioni comminate dagli arbitri hanno fi n qui risposto alle stesse coordinate del diritto penale. Che è anzitutto personale. Nessuno può essere punito in luogo di un altro. E la punizione si fonda sulla colpevolezza, cioè sul rapporto che esiste tra un gesto atletico e la conseguenza che si determina. Il fallo di mano è stato fi no a dieci anni fa punito se volontario. Poi è stato punito, ancorché involontario, se colposo, se cioè il gesto di allargare le mani mentre si contrastava un avversario era tale da ingenerare il rischio di intercettare il pallone. Da oggi il fallo di mano si punisce senza né dolo né colpa, come puro fatto accidentale. Che colpa avevano Zielinski e Cerri di fronte a due rimpalli imprevedibili e addirittura inevitabili? Da oggi il diritto del campo divorzia dai principi del diritto della vita, per il quale le conseguenze eccezionali dell’agire umano non sono imputabili al soggetto agente.
Che questa rivoluzione copernicana coincida con l’avvento del Var è una circostanza che deve indurre a rifl ettere. La tecnologia dovrebbe indurre gli arbitri a decidere meglio. Il calcio invece sta cedendo alla tentazione, fi glia dei tempi, di sfruttare la tecnologia per non decidere più. L’idea, sottesa a questa fuga dalla responsabilità, è che riducendo la discrezionalità si ottenga maggiore giustizia. La morte della volontarietà consegna al Var il potere di stabilire se il rigore c’è o non c’è sul mero contatto oggettivo tra un pallone e dei corpi. Corpi e non più atleti, non più uomini dotati di quell’alito vitale che fa loro lottare e noi sognare. Un calcio oggettivo, dove perfi no gli arbitri potrebbero essere presto sostituiti da un Var capace di fi schiare, è un calcio senz’anima. Ma non senza polemiche. Perché l’utopia di rinunciare alla responsabilità umana in nome della tecnica è l’inganno dell’uomo moderno.