© EPA
Aliou Cissé è uno di quei pacati rivoluzionari che in un mondo meno frammentato in cortili culturali non lascerebbe traccia visiva di sé. Vive come ha sempre vissuto, si presenta come si è sempre presentato, trecce sottili e lunghe (da rasta, direbbero nel cortile accanto), berretto sopra. Se il suo contratto va come deve, nel 2024 arriverà a essere commissario tecnico del Senegal per nove lunghi anni. Ha cominciato a frequentare Mondiali nel 2002, da capitano della squadra che arrivò ai quarti schiacciando tra gli altri la Francia campione. Da allora, e con il suo aiuto, molto è cambiato nel calcio africano. Lui è un rivoluzionario semplice ed è già andato parecchio avanti nella sua missione. Ammesso che la senta tale.
Nel 2018 in Russia era l’unico ct nero. Non poteva negarlo. Dice: il calcio è universale e non credo vada raccontato attraverso insulsaggini tipo il colore della pelle. Ora non è più solo. Ci sono Otto Addo nel Ghana e Rigobert Song nel Camerun. Se siete affascinati dalla trecce di Cissé potreste restare incantati da Song, che amava pure tingerle di biondo.
Cissé nella sua vita ha conosciuto parecchie cose che sarebbe meglio ignorare. Gli scontri etnici presso la sua città natale di Ziguinchor, le notti insonni passate a respirare vapori di guerra, lo sterminio di una parte della famiglia - intesa in senso ampio, ma esistono Paesi in cui certi rapporti contano ancora - in un naufagio. E anche cose meno strazianti ma in grado di segnare un destino: come essere tecnico di una squadra eliminata dal Mondiale per aver preso più ammonizioni del Giappone. Il suo successo come rivoluzionario non sta tanto nell’aver portato ordine in una Nazionale turbolenta, bensì nel non essere più solo. Da anni porta avanti una lotta ideologica per l’affrancamento del calcio africano dalla scuola europea. Quella degli allenatori che vengono, incassano, talvolta insegnano, spesso prendono e se ne vanno. Addo e Song sono una sua vittoria. Almeno quella. Lunedì il Senegal ha perso con l’Olanda pagando le uscite a farfalla di Mendy e le lune storte di Koulibaly. Forse i giocatori, a parte l’assente Mané, più istituzionali e rappresentativi. Tradito dalle proprie certezze. Succede a tutti i rivoluzionari.