ROMA - Se tutto il resto fallisce, pregano San Gaal. Di tornare. Non devono neppure insistere troppo. Louis Van Gaal, che ha un nome molto più complicato del diminutivo Louis e anche per questo non ha tempo da perdere a farsi pregare, con la Nazionale olandese si è costruito un rapporto complicato, gonfio di affetto reciproco, costellato di piccole ferite, sbriciolato da grandi rotture. Più che un amore, è una dipendenza. Sono tre volte che si ritrovano sulla stessa barca, sempre in mezzo a qualche tempesta, sempre incollati insieme dalla necessità. Tranne nel 2000, probabilmente. Allora chiamarono Van Gaal perché aveva fatto meraviglie con l’Ajax, era probabilmente il numero uno del mondo ed era già entrato in rotta di collisione con la dirigenza del Barcellona. Un’occasione da non lasciarsi scappare. Finì molto male, con la mancata qualificazione al Mondiale di Corea e Giappone. E noi in Italia sappiamo qualcosa di ciò che significa. La seconda volta, nel 2014 in Brasile, fu parecchio meglio: terzo posto battendo di brutto i verdeoro nella finalina. La terza volta, vediamo. Gli ricapita l’Argentina, che lo eliminò ai rigori in quella semifinale di otto anni fa. Pare una vita che Van Gaal viene chiamato in situazione di allarme arancione e difatti lo è: adesso il ct è un giovanottone settantunenne che per sua stessa confessione lotta con una malattia subdola e si sottopone a radioterapia durante i ritiri della Nazionale. Nel corso della sua carriera frastagliata, in cui è stato anche dirigente, pensionato, consulente, supervisore di qualcosa, ha inventato schemi fantasiosi ma rigidi quanto secondini di un carcere di massima sicurezza, è passato attraverso evoluzioni esistenziali che lo hanno convertito all’indulgenza nei confronti del talento individuale e al calcio accorto e taccagno di cui ora lo accusano, ha lanciato gente come Seedorf, Davids, Xavi, Puyol, Alaba, Müller. Da lui Mourinho ha preso le basi del mestiere, in quel breve incrocio a Barcellona, e pure la faccia di palta da esibire durante i confronti pubblici con i giornalisti. Dieci anni dopo, José lo ha ripagato bastonando il suo Bayern nella finale di Champions con l’Inter. E più tardi prendendo il suo posto al Manchester United. Ah, dimenticavamo. Tra le referenze di Van Gaal non occupa una casella secondaria aver vinto il campionato olandese con l’Az Alkmaar applicando la formula: visto che qui nessuno difende, lo faccio io. Nulla contro Messi e Scaloni, ma va guardato con simpatia questo tentativo di ripescare continuamente l’Olanda dalle sabbie mobili, trasfigurarla dalla Nazionale all’avanguardia che è sempre stata alla Nazionale vincente che non è stata pressoché mai. Così come apprezziamo tutti gli altri ct per caso o per bisogno o per destino di questa fase finale del Mondiale. Hoalid Regragui, adesso gloriosamente tra i primi otto e ad agosto chiamato dal Marocco perché Walter Mazzarri dopo una trattativa sfibrante si era alzato dal tavolo, piegato dal millesimo cavillo contrattuale. Fernando Santos, capitano di lungo corso approdato al Portogallo dopo la defenestrazione di Paulo Bento e invecchiato su quella panchina sotto il peso delle stagioni e delle critiche, quasi a dispetto dello storico titolo europeo e della gestione determinata del crepuscolo di Cristiano Ronaldo. Gareth Southgate, promosso grazie a uno scandalo e pietra dello scandalo egli stesso, simbolo dell’Inghilterra a cui manca sempre il proverbiale penny. Eppure eccoli lì, sul cammino di San Gaal.