Inghilterra, non è facile essere Southgate

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Marco Evangelisti
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Quando all’inizio dei tempi hanno chiesto se Gareth Southgat se gli stava bene nascere Gareth Southgate, supponiamo non abbia detto di no, una volta conosciute le condizioni. Vive in una casa che sembra Downton Abbey, da sei anni è commissario tecnico dell’Inghilterra, per lavoro pesca a piacere dal campionato più ricco del mondo e lo hanno messo al cancelletto della discesa libera verso la finale del Mondiale. Poi è vero che i giardini dell’Eden sono posti pieni di sorprese, non tutte gradevoli: hanno i loro alberi proibiti e i loro serpenti. Tanto per cominciare, quella che sembrava la metà serena del tabellone si è improvvisamente annuvolata. Dopo il Senegal, che Southgate trova domani, c’è probabilmente la Francia, e questo era prevedibile. Poi di colpo è comparsa la Spagna, oppure il Portogallo. Mai fidarsi del destino, soprattutto quando ha già dimostrato di averti scelto come soggetto ideale per gli scherzi. Di discese libere che si trasformano in slalom sotto i piedi e viceversa, comunque, Southgate ha esperienza. Lo hanno chiamato a lavorare per la federcalcio inglese dopo quattro anni passati a grattarsi la barba e a chiedersi perché fossero tutti fissati a parole con il gioco spettacolare e nei fatti con la lapidazione dei perdenti. Passano tre stagioni, viene spinto alle dimissioni Allardyce reo di aver parlato di trucchi finanziari con due giornalisti camuffati e visto che serve uno lì al volo Southgate diventa ct: pensaci tu, che sei stato difensore e conosci la faccia sporca e cattiva del calcio. Gareth, nipote di un militare da lui citato spesso come esempio di coraggio e determinazione british, ci si mette d’impegno. Prova a vincere. Il bello è che quasi ci riesce. Il brutto è che, per riuscirci, ai giovani anarchici e brillanti di cui il calcio inglese è pieno deve mescolare mediani dai piedi di metallo, terzini dalla corsa rombante, difensori puri alti e storti. Il peggio è che non ci riesce, non fino in fondo. Lo insegue un destino sadico che lo ferma alla semifinale mondiale nel 2018 e all’Europeo lo fa battere in finale, in casa e, beffa suprema, ai rigori dall’Italia che lui indica come esempio di civiltà calcistica rozza ma trionfante. Così Southgate diventa il ct più attaccato del pianeta. Inviso alla pubblica opinione. Criticato da apprezzabili cultori dell’umorismo inglese: tra gli ex giocatori della Nazionale ce ne sono diversi. Il rimprovero più recente che gli muovono è non far giocare abbastanza Phil Foden, allievo di quel Guardiola che si compiace di stare all’altro capo del parlamento calcistico. Eppure lo tengono. Perché ha un aspetto e una radice così manifestamente anglosassoni. Perché, come si diceva di Churchill, sa radunare la lingua inglese e spedirla in battaglia e questo negli spogliatoi piace. E perché, nonostante la fama, è il tecnico che in cinquant’anni è andato più vicino di chiunque altro a far vincere qualcosa all’Inghilterra. Ora deve solo sperare che il destino per alcuni giorni non abbia voglia di ridere.


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