Non è Maradona, non lo sarà mai, perché Maradona non si sarebbe fatto posare sulle spalle la tunica dall’emiro e, forse, con il suo sdegnato rifiuto, avrebbe dedicato la vittoria alle vittime della sharia. L’uomo che alza la Coppa al cielo di Doha è solo un calciatore sublime, capace, all’età in cui Diego era già un ex, di prendere in carico una squadra di modesti gregari e qualche talento, portandola al trionfo. I calzoncini che gli coprono le ginocchia sono la prova che la virtù può ancora più del corpo. Mbappé deve farsene una ragione: la vittoria dell’Argentina è il colpo di coda della tecnica sul calcio muscolare. Finché ci sarà uno come Messi, può accadere.
In trentacinque, tenendo conto anche delle riserve, hanno partecipato alla finale qatariota. Ma solo in due se la sono giocata. Se la Pulce ha battuto la Dinamite, come nei miti dell’epoca scolastica, è perché il calcio non risponde alle leggi della natura. Anzi più spesso le contraddice, imboccando una logica che antepone l’intuito alla forza, la destrezza alla velocità. La velocità del contropiede che porta la nazionale albiceleste al raddoppio, dopo il rigore segnato da Lionel, è una sequenza di scambi eseguiti con la precisione di un’organizzazione rodata. Ma senza il celestiale tocco di esterno sinistro, con cui la Pulce smarca Alvarez, Di Maria non avrebbe mai avuto il secondo in più di vantaggio, necessario per battere il portiere in uscita. Per questo Mbappé deve attendere ottanta minuti per toccare palla, Messi con la palla ci fa quel che vuole dall’inizio alla fine.
È una vittoria della fantasia e dei nervi, della visione e dell’altruismo, della saggezza e del coraggio. Il campione che riporta l’Argentina lassù, dove l’aveva lasciata Maradona quasi quarant’anni fa, è una miscela umana non convenzionale. In cui manca, finalmente, la paura. Per intenderci, quella della finale con la Germania nel 2014. Quel giorno la Pulce apparve sovrastata dalla percezione della sfida. Ieri non ha mai abbassato la schiena in segno di resa. Il pareggio della Francia non ha incrinato la sua fiducia, allo stesso modo con cui la sconfitta nell’esordio con l’Arabia Saudita non ha ridotto le sue ambizioni. Il fatto di giocarsi l’ultima fiche della carriera lo ha vissuto senza angoscia. Di più, lo ha declinato in maturità. È rimasto in campo centotrentanove minuti, molti meno sono bastati a compagni e avversari per finire stremati dai crampi. Lui ha passeggiato con il consueto fatalismo attivo di chi va incontro all’occasione, e si prepara a coglierla se capita. È capitato.
Non è Maradona, Lionel Messi, allo stesso modo con cui Pavarotti non era Maria Callas. La leggenda di Diego è scritta col sangue sulla carne viva del mondo, come la tragica parabola dell’usignolo greco. Il dolore è il suo lessico. La leggenda di Lionel è una favola sulla bellezza incarnata, vive tutta dentro l’estetica. La prestazione è la sua lingua, come per gli acuti sonori del grande tenore, emessi senza apparente fatica. Non chiedete a questo atleta prodigioso di fare la storia oltre la storia del calcio, l’unica che gli sta davvero a cuore. E che da ieri sera ha fatto sua per sempre. Il trionfo di Messi si celebra mentre si addensano su Bruxelles le nubi del Qatargate. Potevamo evitarcelo questo Mondiale? A posteriori è facile dire di sì. Ci consola, tra le tante immagini e frasi stonate della kermesse, l’idea che il pallone abbia fatto gol proprio nella porta di quei regimi che col pallone pensavano di lavarsi la faccia. Se da queste parti del mondo la storia si ferma, o addirittura arretra, come nel caso dell’Iran, la civiltà va in senso contrario, portando il profumo della libertà nelle piazze dove si radunano sempre più ragazze e ragazzi. Il calcio offerto in dono al nemico è una sponda potente al coraggio di queste generazioni, e una sfida alla nostra indifferenza. Chiuso il sipario, non dimentichiamole.