Tre uomini e un destino

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Marco Evangelisti
4 min

Essere un mistero. Gli è sempre piaciuto così. Anche ieri, nel giorno del vino e delle rose, nel momento in cui si brinda alla vita che è stata e si accetta come un omaggio quella che verrà, Cristiano Ronaldo ha chiuso la porta lasciandoci con un interrogativo: stava piangendo, sì, ma non c’era forse una sorta di risata nascosta dietro le lacrime, un joker pronto a spuntare davanti a chi avesse osato frugare nella scatola sigillata? Probabilmente no. Probabilmente il dubbio viene perché non siamo abituati alle sue emozioni, e lui neppure. Ha fatto dell’insondabilità non tanto la sua corazza quanto la sua etichetta. Anche prima dell’ordalia con il Marocco - quando tutti sono andati a scrutarlo in panchina, esiliato dal suo territorio naturale, sulla sua faccia liscia come un letto rifatto si poteva leggere qualsiasi elemento sostenesse qualsiasi tesi precostituita. Rabbia. Prosopopea. Maestà offesa. Perdona loro perché non sanno. È il modo scelto per giocare la partita con il tempo, che dal punto di vista tattico è troppo organizzato persino per lui. Questo Mondiale sarà ricordato anche perché crepuscolare nei confronti di una generazione di giocatori. È la forza terribile di una manifestazione che si disputa una volta ogni quattro anni. Abbreviare l’intervallo in nome degli introiti significherebbe rinunciare a una tale, spietata singolarità. Sono stati pochi gli avversari di Ronaldo. L’età e la fame di gloria sportiva, naturalmente. Ma parliamo di esseri umani, non di concetti. Lionel Messi ha deciso di percorrere tutt’altro cammino per questo viaggio conclusivo della sua carriera internazionale. Cristiano si è illuso di restare sé stesso fino in fondo, Leo è cambiato per amor proprio. Il timido Messi. Messi, che è dovuto arrivare alla soglia dei trentacinque per vincere almeno una Coppa America con la Nazionale maggiore. Messi che non ha mai preteso di essere un maestro, un guru, un sensei. Il miglior giocatore, forse sì. La guida spirituale, mai e poi mai. Adesso però il traguardo è qui. Il titolo mondiale, ciò che consacra, ciò che resta. E gli altri inciampano, cadono. La strada si spiana. È il momento di prendere il pallone che puzza di bruciato e tirare il primo rigore della serie decisiva. Di mettersi a urlare in faccia ai compagni, se serve, e all’allenatore degli avversari, se esagera. Di diventare un esempio. Per Messi è una metamorfosi, accettata per giusta causa. Il prossimo ostacolo, forse il peggiore, per lui è la Croazia di Luka Modric. Uno dei due capaci negli ultimi ventiquattro anni di prendersi il Pallone d’Oro al di fuori del circolo chiuso di Leo e Cristiano. L’altro è Benzema, che neppure ha cominciato questo Mondiale. Modric è a sua volta più vicino ai quaranta che ai trenta. Sta salutando in un altro modo ancora: accentuando spigoli e rotondità del carattere. Ispirato in campo, e nella stessa misura posseduto: in un Mondiale meno indulgente non sarebbe diffidato, sarebbe squalificato da e per un pezzo. Eppure, a fine partita gentile come il dottor Jekill: prima di festeggiare la semifinale si è preoccupato di consolare i brasiliani disperati. Il Mondiale fa questo: ti insegna, ti cambia, ti fa migliorare, ti avvelena l’anima. Entra pure, ma sappi che a uscirne sarà un uomo diverso.


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