Il sortilegio di Doha

Alessandro Barbano
4 min

I piedi di Neymar, le mani di Livakovic. Tra queste estremità tattili, capaci di dare agli eventi una direzione imprevista, passa la storia del Mondiale qatariota, il flop del Brasile e l’allungarsi del ciclo croato oltre il tempo di una generazione. Tra queste estremità corporee il pronostico perde il suo ancoraggio alla forza della probabilità e al gancio della logica. Sui piedi del funambolo brasiliano la storia accelera nella direzione più convenzionale, certamente più coerente al diverso valore delle due squadre. Tra le mani del portiere slavo, convertito al calcio da un talento naturale che supera le ragioni di una carriera diplomatica appena iniziata, la storia invece inciampa e torna indietro, verso quel 2018 che proiettò la Croazia a un passo dal trionfo.

È un sortilegio la sera di Doha, fulmineo e straniante, tanto più perché arriva dopo due tempi di noioso tatticismo, dominati dalla paura di prenderle, comprensibile per la nazionale di Dalic, eccessiva per quella di Tite. È un sortilegio che cambia il corso delle cose e nel volgere di pochi minuti issa al cielo il re sul suo trono, per poi spodestarlo, e mostrare quanto la vanità del primato sia assoluta quanto quella del potere. Il potente, celebrato, coccolato e superpagato campione di San Paolo, prima sorride beffardo dopo la magia con cui buca la ragnatela croata, poi piange con la disperazione di un bambino di fronte al flop della Seleçao, perché vede sfumare nella sconfitta la grande occasione della vita. Non basteranno a consolarlo l’aggancio di Pelé nei gol segnati con la Nazionale, né i quaranta milioni lordi di stipendio che continuerà a prendere dagli sceicchi del Paris Saint Germain. Improvvisamente la sua vita sportiva deve sembrargli così breve da non concedergli più un’altra chance.

Eppure a pochi passi da lui festeggia Modric, che ha due anni in più di quanti Neymar ne avrà al prossimo Mondiale. Segaligno, quanto può l’atleta attempato in piena salute, ha diretto l’orchestra croata con le movenze essenziali del grande maestro. Il suo spartito è un’armonia minimalista. Mai un dribbling di troppo, mai un azzardo contro un Brasile che può sempre sorprenderti in contropiede. Eppure, a tre minuti dalla fine, nell’unica occasione in cui i gialloverdi si scoprono, ruba una frazione di secondo alla capacità di rientro degli avversari e innesca con un passaggio smarcante l’unica verticalizzazione che la partita concede alla Croazia. Certo, a fare della sua intuizione un prodigio decisivo sarà la fuga di Orsic sulla fascia sinistra, il tiro di Petkovic, la deviazione incolpevole di Marquinhos, la visuale coperta del povero Alisson. Ma senza quell’accelerazione repentina, senza quel guizzo dove si manifesta l’intera spregiudicatezza del fuoriclasse, nessuno avrebbe potuto ribaltare un risultato già scritto.

Il resto lo fanno le mani del ventisettenne portiere di Zara, che già quattro volte in questo Mondiale hanno stregato la volontà dei rigoristi avversari. È lui che ha eliminato la sorpresa Giappone e il favorito Brasile, è lui che rimette la Croazia al centro dei giochi. Non crediamo di peccare di nostalgie irredentiste confessando che, orfani degli azzurri, nei secondi decisivi in cui i suoi occhi incrociavano quelli dei brasiliani, un attimo prima che scattasse come un gatto verso il bolide di Rodrygo, c’è sembrato di sentire il battito del suo cuore confondersi con il nostro.


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