Non ha dimenticato il volto di suo padre. E in ogni caso il padre non glielo avrebbe permesso. Daley Blind ieri si è visto piantare gli occhi negli occhi da Danny Blind. Che era suo padre e lo è ancora, beninteso, però è anche il primo assistente di Louis Van Gaal, ct dell’Olanda. C’è un campo di forza invisibile che separa i giocatori da chi ha il compito di guidarli e manovrarli sul campo. Ma nulla cambia le cose quanto un gol al Mondiale. Se poi il figlio segna e il padre è in panchina, la barriera è un peccato contro natura. Tutto deve sciogliersi in un abbraccio.
Daley era già andato in rete al Mondiale, nel 2014 quando l’Olanda battè il Brasile per 3-0 nella finale per il terzo posto. Pure in quel caso Danny era il vice di Van Gaal, che poi conobbe alterne vicende e adesso è di nuovo lì, a tentare di trasformare la squadra che generò il calcio moderno in un’efficiente impresa di pulizie del gioco altrui, in grado magari di vincere qualche trofeo dopo l’Europeo del 1988. Ma questa è un’altra storia. Quella dei Blind è più densa, quanto lo sguardo che si sono scambiati ieri infrangendo la barriera, e tormentata. Coinvolge il passaggio di bandiera nell’Ajax e nella Nazionale da un’epoca a un’altra, da un tipo di calcio a un altro. Paradossalmente, era più libero di sbizzarrirsi e segnare il terzino e centrale Danny, nel frullatore di ruoli che era l’olandesismo in evoluzione di ieri, che non oggi Daley nel suo ordinato e imperterrito scalare la fascia sinistra. Al figlio va benissimo. Già si è dovuto fermare due volte in campo, per una miocardite e poi per un guasto al defibrillatore sottocutaneo che gli hanno impiantato. Il resto è vanità. Danny ha vinto una Champions League, Daley ha giocato al Mondiale e ha segnato. Non devono esserci pensieri amari dietro quell’abbraccio.
In Olanda funziona così. Patrick Kluivert abbraccia Justin. Jos Verstappen abbraccia Max quando questi batte Ferrari e Mercedes, cioè a ripetizione. E nel calcio in generale è lo stesso. Diego Simeone non abbraccia sovente Giovanni per pura e semplice questione di distanza fisica. Ormai succede spesso, è naturale. La passione non sempre si eredita, il talento neppure. Ma oggi quello del calciatore è un mestiere come un altro, di solito meglio di qualsiasi altro. Se ne sei in grado, hai voglia di farlo. Se possiedi un nome che può attirare sponsor, manager, tecnici e pubblico, tanto vale farlo fruttare.
E questa è la realtà delle cose. Che non è superiore alla realtà dei sentimenti. Timothy Weah, prima di incrociare ieri i Blind e uscirne eliminato, ha segnato il primo gol degli Stati Uniti in questo Mondiale, contro il Galles. Martedì scorso, dopo la vittoria sull’Iran che ha mandato la squadra americana agli ottavi, il padre George lo ha aspettato negli spogliatoi, insieme con la moglie Clar. E lo ha abbracciato. George Weah è stato quello che ricordiamo, il centravanti di ferro e gomma del Milan, capocannoniere di Champions, unico calciatore africano vincitore del Pallone d’Oro. Oggi è presidente della Liberia. Ma non ha mai segnato e neppure giocato al Mondiale. Guardava il figlio come se Timothy avesse dato un senso a tutto, perché è esattamente questo che fanno i figli.