Sarà perché qualcuno di noi non è più giovane e la malinconia va giù come l’acqua fresca. Oppure perché il calcio è rilassante e divertente quando non provi nodi alla gola per nessuno di quelli che stanno giocando. Ma siamo già al tredicesimo giorno del Mondiale e tredici giorni sono un tesoro, non un tesoretto. Momenti che valgono. Pure senza l’Italia, questa prima parte del torneo è stata veloce. Provate a dire che non vi siete goduti il bagno di colpi di scena e rovesciamenti del buon senso nella serata di ieri. Adesso, in teoria, si passa alle cose importanti. Oggi finiscono i gironi. Domani comincia la fase a eliminazione diretta. Il Mondiale delle persone serie, i duri che cominciano a giocare perché il gioco si fa duro. In teoria. Però cominciamo col dire che potrebbe essere oggi la data in cui si comincia davvero a sentire la mancanza dell’Italia. Fino a questo momento non ne abbiamo avuto il tempo. Quattro partite al giorno. Non tutte viste da cima a fondo, qualcuna strepitosa tipo quella della rimonta del Camerun sulla Serbia o l’accurata devastazione chirurgica della pachidermica Germania e della Spagna rococò a opera delle vespe giapponesi; qualcuna francamente brutta; altre ancora sorprendentemente eccitanti nella loro inutilità, come la sconfitta della Francia contro la Tunisia, talmente indolore da innescare isteria da Var e un ricorso contro l’omologazione del risultato. Quello che vedremo da domani sarà il Mondiale delle persone serie, dei giocatori belli e santi e degli spettatori saltuari i quali spesso hanno di meglio da fare che guardare il calcio. Forse ci salveranno dalla routine le sorprese di ieri o il Senegal. Ma quello che abbiamo vissuto fi no a oggi è stato il Mondiale vero, carne e sangue, urlo e furore. Quello in cui ricordiamo volti finiti nell’oblio una volta scaduta la garanzia: Hector Moreno che venne buttato fuoribordo dalla Roma dopo nemmeno sei mesi e tornato a galla con il Messico, Aaron Ramsey mal sopportato alla Juventus e ritrovato nel Galles, il giapponese Maya Yoshida passato dalla Sampdoria alla Bundesliga e ora al Mondiale senza cambiare espressione. Un elenco aperto, anche perché il torneo, nonostante la nostalgia, prosegue e si espande. È nella fase a gironi che scopriamo, se ne esistono, nuovi modi di fare calcio: il fuorigioco sistematico e alto sostenuto dalle innovazioni tecnologiche di supporto agli arbitri, la gestione delle energie attraverso l’uso capillare dei cinque cambi e l’esplorazione delle partite prolungate dai recuperi massicci, la progressiva scomparsa dei centravanti genuini, la conseguente moltiplicazione delle difese a tre per rispondere alla proliferazione di punte mobili e nove fasulli. E impariamo a conoscere tecnici che oltre a portare le trecce rasta e a tingersi la barba di biondo sono capaci di inventare qualcosa di innovativo davanti alle situazioni impreviste. Mentre d’ora in avanti saremo presumibilmente deliziati da tattiche e variazioni uscite pari pari dal manuale del bravo allenatore. Arriva il Mondiale dei commissari tecnici seri, quelli che tengono alla propria reputazione. Ci racconteranno adesso storie che conosciamo. Ci lasciamo alle spalle i dilemmi etici dei giocatori dell’Iran, spaccati in tre tra tutela delle famiglie, fedeltà a un credo per quanto strumentalizzato, ideali di ribellione popolare. Dimenticheremo le illusioni del campesino Valencia, l’errore di sistema che ha fermato gli atleti robotici del Qatar, i nomadi multietnici del Canada. Ci resteranno Messi, Ronaldo, Casemiro. Non poco. Ma non potremo fare a meno di voltarci e quindi di guardare oltre, più avanti. Arrivederci tra quattro anni. Per un altro Mondiale poco serio, soltanto felice.