NAPOLI - La vita di Diego Armando Maradona è racchiusa tra Buenos Aires e Napoli, le sorgenti d’emozioni che gli sono appartenute, erano sue, o che ha spalmato con quella maschera da scugnizzo, un eterno fanciullo che due anni fa se ne è andato per non sparire mai. Ora ch’è volato via, dal 25 novembre del 2020, c’è un Diego che sorride ovunque, tra i vicoli di Napoli, nei tormenti della sua Argentina che vive nella sua ombra, negli sguardi persi di chi se ne va in processione, cercando in se stesso i frammenti d’un passato intramontabile. Due anni trascorsi nel dolore e nel rimpianto e pure in quel senso di allegria contagiosa e straripante che ha rappresentato il mantra d’una esistenza border line: ma quella era la sua e, come avrebbe detto el negro, Roberto Fontanarrosa, fumettista argentino, «che mi importa di quel che Maradona ha fatto con la sua vita: mi importa di quello che ha fatto della mia». Dell’Argentina mondiale, del Napoli campione d’Italia per due volte.
I «FIGLI»
Napoli è stata sua e in quei sette anni - giova ricordarlo per rappresentare quale effetto emozionale scatenò in una città conquistata con un «buonasera napolitani» e poi trascinata nell’Olimpo del calcio - ci furono 527 padri che scelsero di chiamare Diego il proprio figlio. Il giorno in cui Maradona è morto, nel silenzio surreale, in quell’atmosfera dolente, melanconica, triste e persino insopportabile, in migliaia scelsero i murales o anche, soprattutto il san Paolo per depositare una sciarpa, una maglia, un lumino e le proprie lacrime, che Ciro Ferrara ha voluto adagiare a Villa Fiorito, dove tutto cominciò, in un viaggio della memoria esclusivamente personale.
UN REGALO A LUI
Diego lo avverti ancora adesso, eppure è stato rapito dal Barba ormai da due anni, è diventato Mito dopo essere stato Leggenda, è la rappresentazione di un vissuto che non potrà mai evaporare in chi come, Corrado Ferlaino, lo scelse come idolo del rinascimento calcistico napoletano e che su Ottochannel l’ha ricordato con commozione. «Ho sempre pensato che lui fosse nato a Napoli e che poi, di nascosto, fosse andato in Argentina. Era un napoletano per spirito, per modo di pensare, per quella ribelle a certe regole, riconoscendo solo quelle del campo, tant'è che era squisito e di una sportività enorme. Per me lui ha rappresentato il coronamento dei miei sforzi per vedere vincere il mio Napoli. Forse avrei potuto stargli un po' più vicino, ma penso che sarebbe stato inutile». Maradona è stato il calcio, lo ha sublimato con un campionario di prodigi che solo un artista geniale e inimitabile poteva esibire, inserendoci dentro pure qualche «marachella» elevata a capolavoro come la Mano de Dios. Il Napoli è stato Maradona, perché con lui ha vinto il suo primo scudetto e sempre attraverso il suo talento ha conquistato anche il secondo ed ultimo: poi, la nebbia della normalità, gli abissi del fallimento del 2004 e la resurrezione attraverso il progetto di De Laurentiis, al quale Corrado Ferlaino, l’ingegnere ma pure - per sua stessa definizione «il carceriere di Diego» - ha già avanzato una richiesta con rigoroso rispetto per la scaramanzia che induce a non pronunciare mai quella parola. «Speriamo, forse il Milan è l'avversario più temibile. Per giugno attendo da De Laurentiis un invito per l'ultima gara allo stadio: comunque vada il campionato sarà magnifico lo stesso». Il Diego Armando Maradona sarebbe essere troppo piccolo, dinnanzi ad un sogno.