È come se nulla fosse cambiato, eppure il tempo è volato via, malinconicamente, ma non c’è quasi mai stata la possibilità di pensare che Diego veramente non ci sia più. Erano le cinque e mezza del pomeriggio in Italia, le tredici e trenta in Argentina, chissà quante ore in più o in meno nei vari fusi dell’universo intero, quando un cellulare fermò il football e pure il mondo per avvisare che il Barba era intervenuto dall’alto ed aveva convocato a sè il Genio: chiunque ami il calcio, e mica solo quello, dev’essere rimasto sospeso nel frastuono dell’anima, perché con Diego Armando Maradona, in quel 25 novembre del 2020, sparivano i sogni e pure le favole, si sgretolava un’epoca “ribelle” e s’avvertiva un vuoto dolente, consapevoli che nulla sarebbe stato come prima. Sono trascorsi 731 giorni - non è chiaro se rapidamente o con la lentezza scandita dal fermo immagine della memoria che in ognuno scova sempre qualche diapositiva di repertorio - e la sua assenza s’è trasformata nella sua presenza nei vicoli di Napoli e nelle fragorose invocazioni al cielo dell’Argentina, perché Diego è in uno stadio ch’è sempre stato suo e che ora gli appartiene eternamente, è nei racconti e nelle rievocazioni, è nel rimpianto, è un’ombra - se non fosse retorica si direbbe un angelo - che s’avverte in quella città che gli è devota, che lo elesse a re e poi nel culto del suo talento l’ha elevato a divinità con la processione a Fuorigrotta di migliaia di persone, con quel fiume di gente ai murales trasformati in sagrati per pellegrinaggi a cui è impossibile sottrarsi. Sarebbe semplice e persino offensivo ridurre Maradona a simbolo “solo” d’un settennato, paladino d’una rivolta calcistico-sociale, totem di una felicità che sa di scudetti, di Coppe Italia e Coppa Uefa, di gol, diavolerie, capolavori e miracoli rimasti incollati alle pareti di Napoli che la Mano de Dios non ha mai smesso di sentirla posata sul proprio capo, anche negli attimi più tristi e deprimenti vissuti esclusivamente in un’ora e mezza di baldoria.
Diego Armando Maradona è stato un’epoca, anzi la vita, l’ha riempita in quell’Argentina che ha smesso di vincere un Mondiale 36 anni fa e poi a Napoli, che ha cominciato appena 35 anni fa e si è fermata poi 32 anni fa, proprio quando cominciò a sentire l’uscio della porta cigolare e pensò che stavano per cominciare a scivolare i titoli di coda su quell’amore popolare senza crepe. Il velo di tristezza non è mai sparito, neanche quella cappa di sofferenza collettiva, e però Maradona nelle contorsioni del suo talento immortale ha avuto la forza e la capacità di spargere su Napoli una spruzzata della sua allegria, quel sorriso assai scugnizzo e quella leggerezza che s’avverte ogni volta, nel suo stadio, in cui Rodrigo Bueno diffonde calore con quel sottofondo che sembra voglia essere un inno alla gioia ed è stato ormai adottato nel luogo più sacro del Pibe de Oro, il suo Pantheon. Diego è morto eppure Diego vive, nel ritmo incessante della quotidianità, l’uomo che nella periferia del football ha sistemato il calcio al centro del villaggio non s’è mai dissolto, rimane il riferimento (anche) politico-culturale di battaglie dialettiche sul razzismo e sul potere, combattuto dall’alto di una creatività sublime. Maradona è nella narrazione postuma alla quale si sono abbeverate le generazioni che non lo hanno conosciuto, è nei frammenti in bianco e nero di qualche fotogramma che non riesce mai a sbiadirsi, manco ora che, e se ne sono andati due anni, è stata negata la possibilità di poterselo godere almeno un po’, con quella sua espressione da eterno, amorevole fanciullo della porta accanto al quale vorresti semplicemente regalare una carezza. D10S c’è.