L’ultima storiaccia di malata fantasia, quella del cuore rubato a Diego, segnala in modo eclatante il deplorevole crollo di certo giornalismo e di certa gente verso la voragine dell’infamia. Mentre apprezzavo il nuovo libro di Marino Bartoletti - Il ritorno degli Dei - dedicato a Paolo Rossi e Maradona, prendendo nota che al Pibe de Oro veniva assegnato per l’eternità un posto in Paradiso, ho sorriso. Poi ci ho ripensato. Sono credente, mi aspetto che DOPO ci sia davvero un altro luogo di felicità o di pena dal quale poter seguire quel che di noi resta più caro sulla terra: amori, affetti, fama, onori… ma quante volte presenteranno cattiverie, bugie, tradimenti, vergogne anche solo per speculare, anche infangandola, sulla tua memoria? E allora, perché continuare con una vita sospesa in un paradiso irreale? Non è forse meglio morire per sempre? Non la pensavo così quando un anno fa l’ho salutato nel mio blog come un fratello perduto con una lettera all’amico più che al mito.
Maradona, il ricordo di Italo Cucci
“Ciao Diego. Se dovessi parlare del calciatore dovrei dire che mi hai preso in contropiede. Non è da te. Ero lì che mi rallegravo per l’operazione alla testa andata bene; dicevo, fra me e me, finalmente un po’ di fortuna per Diego. E invece no. Sei fuggito. Ho raccontato i tuoi gol più belli, il superbello a Città del Messico, il 22 giugno dell’86, quando hai fregato gli inglesi delle Falkland non con la mano de Dios ma con quell’incontenibile slalom-gol che per decenni è stato cantato a Radio Rivadavia di Baires come un inno da José Maria Muñoz che hai ritrovato lassù. E tu alla fine, raggiante, cantavi (ero con te, dopo - io potevo - a scrivere insieme il pezzo del giorno) «Las Malvinas son Argentinas». Ciao Diego. Se dovessi parlare del calciatore vitaiolo mi farei una bella risata - e tu la tua - dicendoti che Pelé stavolta ti ha fregato. Lui ha appena fatto gli ottanta, un po’ decadente, come me, Diego, che ho i suoi anni: ma è ancora lì, e all’anagrafe di Tres Coraçoês cantano «Pelé è meglio ’e Maradona». Tu sessanta, subito rovinati dal cervello ferito, dal ricovero, dalla paura che quest’anno di merda ti portasse via. Hai avuto solo un breve rinvio. Con te, Diego, ho avuto una fortuna che adesso pago il doppio, perché in realtà del calcio chissenefrega, perdio ho perso un amico; peggio, un amico ritrovato. Perché dopo quella storia della droga avevamo rotto: tu mi davi dell’ipocrita perché avrei dovuto rimproverare anche quel mitico industriale del Nord che tirava di coca e io no, io ti dicevo che quello non era un ambasciatore dell’Unicef come te. Dopo due giorni sparivano i cartelli pubblicitari della nobile società benefica. E sparivi anche tu. In Argentina, dove ci odiavano perché - dicevano - noi Italiani ti avevamo rovinato. Consentendoti tutto. Anche di distruggerti.
Maradona, vivo per sempre
Chiudemmo ogni rapporto, negli Usa, nel ’94, quando quell’infermiera ti portò fuori dal campo e tu sparavi al mondo due occhiacci da far paura. E io ti dissi ch’eri Pinocchio imbrogliato dal Gatto e la Volpe. Mi tirasti una scarpa, feci la fine del grillo parlante. Tacqui per 12 anni. Poi una sera del 2006, a Monaco di Baviera, alla vigilia di Italia-Germania, un collega della Rai mi dice che sei al «Calabrone», il ristorante del mio albergo. «Vieni a dargli un saluto... Poi una bella intervista...». «Non ci parliamo da anni...». «Uno deve cedere... fallo tu...». Era passata la mezzanotte. Entrai, ti vidi a capotavola, c’era anche Batigol. Mi fermai sulla porta, pronto a ritirarmi, poi sentii la tua voce, una cantatina sfottente e amica insieme: «Forsa Bolonia!», proprio come il Petisso, ricordi? Ti sei alzato, mi sei venuto incontro con un bel sorriso, ci siamo abbracciati e ci siam messi a piangere come due ubriachi. Ti abbraccio anche oggi, e piango, Diego mio. Ma poi sorrido. Per me sarai vivo per sempre…”.