Maradona, l'Assoluto

Ivan Zazzaroni
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Sì, è morto. L’avrò ripetuto cento volte dopo l’angosciante lancio del Clarìn. In testa mille pensieri, tanti registri da tenere insieme. Da dove comincio? Non riesco a mettere in ordine i ricordi e il telefono squilla in continuazione: televisioni, radio, amici, colleghi, dirette, segreterie, una battuta, appuntamenti per un ricordo personale. Sì, è morto Maradona. Le emozioni continuano ad accavallarsi, si sovrappongono: non ci credo ancora. Troppe sollecitazioni, scorrono immagini e gol a reti unificate. Le sue magie, le sue parole, le sue confidenze, gli incontri, le sue provocazioni. Le ripetute ribellioni. Penso insistentemente a Napoli, ai napoletani. I suoi napoletani: hanno perso il loro ultimo eroe, il loro orgoglio, un pezzo di vita, ma non la storia. Lui, uno contro tutti. Lui, Napoli contro il resto del mondo.

Sì, è morto il dio del calcio. All’improvviso, quando sembrava risorto di nuovo. Aveva provato altre volte a farsi male: la partita con il suo cuore grande, robusto ma assai poco rispettato era sempre riuscito a vincerla. Diego vinceva anche quando perdeva.

Chiamo casa, come un ragazzino chiedo di tirar fuori la maglia numero 10 che mi regalò una persona che mi vuole bene. È di un Brescia-Napoli. Bianca, di lana pesante, sponsor Buitoni: Diego mi ha fatto sempre sentire suo tifoso, prima che giornalista. Telefona Gianni Di Marzio, che lo portò a Napoli. Sì, è vero. È morto. A gennaio Gianni farà ottant’anni e adesso piange come un bambino: «Ho vomitato il mio dolore», confessa.

Il 25 novembre i grandi se ne vanno. Fidel Castro, l’amico di Cuba. E George Best, il padre dei grandi dissipatori di talento, la prima rockstar del calcio mondiale. Quello che un giorno disse: «I spent a lot of money on booze, birds and fast cars. The rest just squandered». Ho speso un sacco di soldi in alcol, donne e auto veloci. Tutti gli altri li ho sperperati. Diego non li ha mai buttati nelle macchine veloci, ma non si è fatto mancare tutto il resto, specie le amicizie sbagliate.

Il cuore in agitazione, momenti memorabili a contrasto con zone drammaticamente più opache. Il Pelusa, il Pibe. È morto il re. Anche dei ricordi. Sydney, autunno del ‘93, spareggio per il mondiale con l’Australia: all’Argentina basta il pareggio. Sono l’unico giornalista italiano presente. Diego si allena in un campo di periferia e va a mille, fa il grosso come sempre, ride, scherza, palleggia, prende in giro i compagni, Balbo, Simeone, Chamot, Batistuta, Ruggeri. È dimagrito dodici chili in tre settimane, il suo improbabile preparatore è giovane e dalle pratiche discutibili. Anfetamine, sussurrano. Non è vero, non può essere. Diego è felice, la Fifa e gli americani lo vogliono a ogni costo a Usa 94. La Fifa lo tradirà a Dallas dopo aver capito che l’Argentina e Diego avrebbero potuto creare difficoltà al Brasile di Havelange, candidato dalla politica e dal business alla vittoria finale. E poi la notte di Dallas. Il “Mortadella” esce dall’hotel, mi viene incontro e mi fa superare lo sbarramento della polizia texana, Caniggia ci raggiunge all’ultimo piano per portarci da lui che si è isolato e non vuole parlare con nessuno. Busso. Non ci apre, da dietro la porta mi dice: «Amico mio, mi hanno tradito».

Diego generoso di sé con i compagni di squadra, i tifosi, gli amici, i giornalisti di cui si fidava, Gianni Minà su tutti. Diego mai rassegnato non le mandava a dire: il libro di Ciro Ferrara lo descrive molto bene. Aveva un pessimo rapporto con il denaro. Sapeva di sbagliare eppure continuava a tormentarsi perché per lui era impossibile essere Maradona, vivere da Maradona. Lo rimproveravano di risultare un pessimo esempio per i giovani. Rispondeva: «Non voglio essere un esempio per nessuno e pago io per i miei errori».

Il campione era sovrumano: rivedo cento volte i gol alla Lazio, alla Juve, all’Inghilterra, nessuna sospensione in quella folle corsa, un viaggio vertiginoso verso la leggenda.

Sì, è morto il più grande di tutti, il più grande di sempre. Resusciterà ogni volta in cui una televisione o la rete ce lo mostreranno con un pallone tra i piedi: in fondo sono nati insieme. Di Maradona resterà solo il fuoriclasse, l’Assoluto, gli errori dell’uomo gli saranno pian piano perdonati. Perché il ricordo seleziona, il ricordo distingue. Diego vive


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