Italia, non ci serve mica il talento

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Italia, non ci serve mica il talento© Getty Images
Ivan Zazzaroni
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Per vincere l’Europeo non ci serve mica il talento. Quello puro, intendo: we are italians. La storia ce lo insegna: se ci limitiamo agli ultimi vent’anni scopriamo che anche con Totti, Del Piero e la BBC più fresca e tonica, oppure De Rossi, Buffon, Cassano e Pirlo, arrivammo al massimo in finale. Otto anni fa l’Italia “operaia” di Conte che fu eliminata dalla Germania di Neuer, Kroos e Müller soltanto ai rigori, calciati in modo inverecondo, schierava Pellé, Zaza, Giaccherini, Florenzi, Parolo, Sturaro. Quella di Mancini che il campionato l’ha invece vinto aveva Bonucci e Chiellini in fase calante ma comunque utili, Emerson, Verratti, il capocannoniere Immobile, che criticammo perché non la buttava dentro, Insigne, Pessina, Berardi, Bernardeschi.

Oggi, al posto degli eroi del Mancio, ci sono Buongiorno, per il quale il Napoli è pronto a spendere 40 e passa milioni, Bastoni, finalista della Champions 2023 e titolare dell’Inter scudetto, Dimarco, assai più forte di Emerson, Fagioli e Scamacca, che ha appena vinto l’Europa League con l’Atalanta e sul quale De Rossi e Di Biagio scommetterebbero la casa. Ne hanno tante.

Gli azzurri che ho appena indicato non possono essere considerati dei talenti: i nostri migliori elementi sono Donnarumma e Barella. Non va tuttavia dimenticato che negli ultimi anni, invecchiato Ronaldo, anche in Europa i giocatori di alto livello sono notevolmente diminuiti. Francia, Spagna, Portogallo e Inghilterra ne presentano ancora alcuni, ma nel complesso non si può parlare di fenomeni assoluti.

Il fuoriclasse della Nazionale resta, per tutti, Luciano Spalletti. Che purtroppo ha poco tempo per preparare la squadra e dovrà per forza sfruttare le nostre caratteristiche più naturali: la determinazione, il senso di squadra, quel pizzico di disperazione da inferiorità tecnica che sul campo si trasforma spesso in talento di gruppo, e poi l’attenzione e la sensibilità tattica.

Tre anni fa conquistammo il titolo lavorando tanto e soffrendo tantissimo, segnando poco e ricorrendo più volte ai rigori. Ma fu ugualmente fantastico, gli abbracci di Wembley restano indimenticabili e, pur sforzando il cervelletto, non ricordo appunti particolari mossi alla qualità del gioco.

Ricordo che stavolta abbiamo evitato gli spareggi per un rigore (netto) non concesso all’Ucraina e insomma mi piace interpretare quel favore arbitrale come un segno del destino. Se la fortuna ci dà una mano e non tradisce come in passato, possiamo arrivare lontano. In altre parole, i nostri complessi di superiorità non devono soffrire di complessi di inferiorità.

PS. Nel ’68, quando i fenomeni li avevamo sul serio (Zoff, Facchetti, De Sisti, Mazzola, Riva, Domenghini) e ci laureammo per la prima volta campioni d’Europa, per raggiungere la finale servì una monetina da 5 franchi svizzeri coniata nel ’32. Preghiamo.


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