Spalletti, mamma e bandiera da italiano vero

Leggi il commento del Corriere dello Sport-Stadio sul nuovo ct della Nazionale Italiana
Spalletti, mamma e bandiera da italiano vero© LaPresse
Italo Cucci
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Tanto per cominciare, non chiamatelo più Spallettone, nomignolo mourignano - anche affettuoso - che non s’addice al tecnico della Nazionale. Ferruccio Valcareggi non spregiò Uccio ma Fabbri s’arrabbiava se gli dicevano Mondino, eppoi il Mago, il Dottor Pedata, il Vecio… Spallettone no, e neanche Lucianone, ch’è d’altri. Senza attribuirglielo come nomignolo, io lo direi Ulisse, l’uomo dal multiforme ingegno che da Empoli a Genova, da Udine a San Pietroburgo, da Roma a Milano a Napoli è sempre stato l’altro di se stesso - anche a Roma bis - diventando il Fregoli dei sentimenti, magari con un po’ di lagna certaldese ma sempre a esibire genio e regolatezza, alla maniera di Odisseo che con tattiche audaci ma sempre ad hoc sbaragliava i Lotofagi, il Ciclope Polifemo, il ventoso Eolo, i cannibali Lestrigoni, la maga Circe, i Cimmeri, i Feaci e le Sirene mediatiche. Se avessi voglia e spazio vi spiegherei che tutti quei mostri li ha davvero conosciuti, affrontati e spesso sconfitti in campionato e in Coppa. Tanto che lo Spallettone gli è stato affibbiato al termine di una lunga e combattuta Interiade ricca di gioie e di dolori. Eppoi, come Ulisse, la mamma: il divo nell’Ade si confortò con l’adorata Anticlea, Luciano nella prima conferenza stampa ha dedicato il primo pensiero alla signora Ilva - la mi’ mamma, si toscaneggia - che gli ha ispirato l’ennesimo travestimento (utile di ’sti tempi) in onore della Patria: «A undici anni chiesi a mia mamma di cucire una bandiera gigante. C’era il Mondiale in Messico, le mamme cucivano in casa e andai a chiedere alla mia di fare una bandiera dell’Italia più grande possibile per festeggiare quel fantastico 4-3 alla Germania. E ora questa bandiera la riporterò in campo quando vado in panchina e spero di far rinascere quel sogno, tutti insieme, di poter portare questa bandiera a tutti i bambini. Ora questa favola è successa a me». Cosa dite? Che meno il can per l’aia? No, faccio solo la mia parte. Altri ne cureranno la biografia, altri il credo tattico, altri ancora il garbo politico che a Patria e Famiglia accosta il politicamente corretto che gli fa dire - lui Ct della Nazionale - «Si può essere uomini o donne senza essere campioni, ma è impossibile diventare campioni senza essere veri uomini o vere donne». Le calciatrici ringraziano. Io mi tengo, in breve, le sue sortite maliziose. Come una notte a parlare intensamente di Tottismo. Ma mi mordo la lingua. O le improvvise fregole, come quel piantare in asso De Laurentiis per un anno bucolico (sabbatico non gli piace) subito tradito che mi spinge a rammentare quando lo conobbi la prima volta, a Udine - dove cominciò la sua fama di Asso di Coppe. Il 6 giugno del 2006 abbandonò l’Udinese e il suo presidente - l’ardito Giampaolo Pozzo - lasciandolo in un dubbio antico e nuovo. Disse «ritengo concluso il mio ciclo all’Udinese, perché non mi sento in grado di garantire tutti gli anni quel quarto posto che è invece diventata un’esigenza». Pozzo poteva tentare di trattenere amichevolmente il tecnico che l’aveva portato in Champions, oppure impugnare il contratto che gli imponeva un altr’anno in Friuli. A Spallettone - lo dico l’ultima volta - restarono le dimissioni. Con penale. Niente di nuovo sotto il sole.


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