C’è il gruppo, c’è il genio, c’è la tigna, e c’è anche il centravanti che cercavamo, ma proprio per questo la vittoria di Budapest è grande quanto un rimpianto sconsolato. Giocheremo la Final Four con buone possibilità di confermare la leadership europea, ma nel frattempo guarderemo il Mondiale degli altri come una colpa. Il volto di Mancini dopo il due a zero all’Ungheria racconta questo contrasto di emozioni. L’Italia è una stupenda esclusa, pagherà per quattro anni gli errori di una qualificazione trattata con sufficienza dal sistema calcistico e con qualche prudenza di troppo dal ct. Che, per gratitudine verso i combattenti di Wembley, ha rinunciato a quel pizzico di cinismo che gli avrebbe suggerito di scaricarli un attimo prima che loro scaricassero lui. E che tuttavia oggi ha il merito di aver ripreso in mano una squadra delegittimata, averle ridato fiducia, e aver trovato, in mezzo a tanti infortuni, le scelte tecniche e i correttivi tattici che la riportano dov’è giusto che stia. In alto.
Giacomo Raspadori è il simbolo di questa ripartenza, che ha buone possibilità di diventare una rinascita. Il ventiduenne di Bentivoglio porta con sé l’intero patrimonio genetico del talento italiano. Tecnico per natura, atletico quando basta, furbo in eccedenza: se il paragone ci è concesso quale auspicio, diciamo che il corredo di Pablito Rossi è transitato tra le generazioni, trasferendosi nelle articolazioni ossute e nell’elasticità dei movimenti del piccolo centravanti azzurro, dotato dello stesso intuito dell’eroe del Mundial spagnolo. La sua abilità nell’usare con uguale raffinatezza destro e sinistro, il senso tattico e la capacità di trovarsi sempre al centro del gioco, compensando con l’anticipo i limiti della stazza fisica, fanno dell’ultimo giocattolo di Spalletti una speranza del calcio italiano per il prossimo decennio.
La vittoria di Budapest non è perfetta. L’ha propiziata un atteggiamento tattico correttamente offensivo, ottenuto con un pressing alto e un raddoppio di marcatura sui portatori di palla avversari, un’alternanza tra il palleggio corto in mezzo alle linee e gli affondi in verticale dettati dalle imbeccate di Bonucci. È l’Italia che sorprende, che accelera e frena, che si allunga e si ritrae compatta, a difesa della sua area di rigore. È il nostro calcio, bellezza! Quello che da sempre ci ha regalato le emozioni e i risultati migliori. Si può fare anche se Verratti, Tonali, Pellegrini, Immobile e Politano sono rotti, per non dire di Chiesa e Locatelli. Si può fare perché è la lingua del nostro modo di parlare con la palla tra i piedi.
Ma è nostro anche lo smarrirsi dopo sessantacinque minuti di dominio, sbagliare tutte le triangolazioni come se un corto circuito avesse spento le linee di comunicazione tra i reparti, ed è nostro anche il trovarsi improvvisamente fuori tempo nell’interdizione, sopraffatti negli anticipi, come se gli avversari, fino a quel momento domati e dominati, avessero ribaltato il gioco. Ci ha messo tre pezze Donnarumma, con una prontezza che ricorda il luglio della gloria inglese, e ci ha messo involontariamente del suo anche il black out tra arbitro e Var, che insieme negano ai magiari un rigore grande quanto una casa.
Questo per dire che c’è ancora da lavorare e da costruire. Con il concorso di molti soggetti: ct, atleti, federazione, governo e club. Dove club vuol dire presidenti, che fin qui hanno snobbato la Nazionale, credendo di poter inseguire le proprie fortune senza il traino dell’azzurro. Stando fuori a guardare i riflessi delle luci che dal Qatar già si proiettano sul pianeta, è facile comprendere come la loro sia solo miopia. L’Italia può tornare egemone come merita, e aprire un ciclo che intrecci nei prossimi quattro anni Europei e Mondiale. Ma bisogna che tutti ci credano di più. Molto di più di quanto si è visto fin qui. Questo ha detto la notte di Budapest.