Bella mossa, quella del destino. Ripartire dall’Inghilterra di Kane. Non sarà Wembley, stasera, ma fa niente, i nomi sono quelli, la giostra riparte dalla serata magica in cui l’azzurro si è sentito forte, onnipotente, anche troppo. Ripartire da quella sera per riscrivere una storia recente che ha consumato vizi antichi, errori fatali, ma, a quanto sembra, ne ha tratto lezione. Così succede alle persone intelligenti. Roberto Mancini è una di loro. Era così stanco e deluso che non voleva nemmeno sentire parlare di futuro. Meno che mai di passato. Il presente era così brutale e illeggibile da prendersi tutta la testa e tutta la pancia. Tutta la scena. Fuori dai Mondiali, sfrattati come una banda di abusivi, per mano e per piede di una squadra, la Macedonia del Nord, che poteva tutt’al più accreditarsi da onesta sparring partner. Odiosa non la sconfitta, ma la sua incomprensibilità, il suo essere così iniqua.
Mancini aveva davanti a sé due possibili scelte. Quella canonica del togliersi di mezzo. Osservare stancamente la liturgia di un copione già scritto. O provare a ribellarsi. Sentirsi talmente schifato per quell’ingiustizia, talmente violentato, da imporsi una second life, scrivere un copione su una pagina bianca che non prometteva niente di buono. A partire dai suoi dubbi che sono stati enormi e dolorosi, aghi conficcati nel cranio. Continuare sì, ma per cacciarsi dove? In un patema peggiore? Leccarsi le ferite, per andare incontro a una ferita definitiva? Abbandonare: dovere, necessità o viltà? In una delle sue notti funestate dal dubbio e forse dalla fragilità, dalla insinuante e comoda domanda del “chi me lo fa fare?”, l’orgoglio del ragazzo di Jesi deve essere esploso, travolgendo ogni diga. “La mia storia, la storia di Roberto Mancini, può accettare la sconfitta, ma non questa sconfitta”.
Mancini non ha scelto di pensare al futuro. Mancini ha scelto di precipitare nel futuro. Era stata la grande intuizione del suo primo mandato da Ct della Nazionale, bisognava ora tornare a praticarlo, ma in una forma più estrema. Sparigliare le carte e rovesciare il tavolo. Non sappiamo se Mancini sia un grande allenatore. Sappiamo, però, che un grande allenatore è un grande leader. Uno le cui parole, anche quando sembrano assurde, risultano convincenti. Non si trattava di far fuori se stesso. Troppo facile, scontato. Un altro confortevole ingaggio l’avrebbe rimediato il giorno dopo. Si trattava, scelta questa sì più complicata, di restare, di sfidare la gogna, puntare sull’azzardo più grande nella storia delle panchine azzurre. Mettere su una baby banda di talento (il talento lo sa riconoscere Mancini) e giocare sui due grandi motori della giovinezza, l’innocenza e la sfrontatezza. Liberi di esagerare e liberi di sbagliare.
Ecco Mancini che s’inventa nomi sconosciuti ai più, Gnonto, Scalvini, Gatti, Cancellieri, Zerbin, decide di dare statuto definitivo a ragazzi come Tonali, Scamacca, Raspadori, Calabria, Frattesi, Pobega. Promuovendo i Barella, i Verratti, i Pellegrini e i Donnarumma, si aggiungerà Chiesa a breve, gente che in Nazionali del passato sarebbe stata appena comprimaria per manifesta “inesperienza”, come le chiocce di questa compagnia da svezzare, ma che ha già mostrato cose molto promettenti. Mossa della disperazione o della illuminazione? Da stasera cominceremo a sapere. Ma diamoci tempo e diamogli tempo.