Nelle crisi più profonde bisogna toccare il fondo per salvarsi. L’Italia, che il fondo lo ha toccato con l’Argentina, non può dirsi salvata dal pari con la Germania. Ma qualcosa s’è svegliato in questa squadra, in coincidenza con il ritorno di Mancini al coraggio metodologico con cui, cinquanta partite fa, era comparso sulla scena azzurra. Lo stesso coraggio dismesso dopo il trionfo di Wembley, quasi in omaggio a un gruppo che merita il ricordo grato di tutti i tifosi italiani, ma che è già una pagina di storia. Il futuro sono per la Spagna i Gavi, che a diciassette anni ha già totalizzato sette presenze in Nazionale, e per l’Italia gli Gnonto, che a diciotto anni ha esordito propiziando il gol di Pellegrini con un assist ficcante, ma soprattutto battendosi con una determinazione e numeri da predestinato. Nel ritardo di occasioni che divide Gnonto da Gavi si specchia il divario tra gli azzurri esiliati dal Qatar e le furie rosse che puntano a vincere i Mondiali.
Ma attribuire a Mancini la responsabilità di questo scarto sarebbe ingeneroso. Perché, mentre prendeva dimestichezza con la Roja, Gavi aveva la possibilità di giocare con il Barcellona 31 partite nella Liga e 11 nella Champions. Per il giovane ivoriano nato a Verbania il rodaggio nello Zurigo, dopo le porte chiuse dell’Inter, è stata esperienza decisamente più modesta. Con il suo esordio contro la Germania il nostro segaligno ct ha mandato un messaggio forte e chiaro alla classe dirigente del calcio di club: fate giocare i giovani!
Dopodiché è chiaro che per Mancini la sfida con Messi chiudeva un capitolo della sua avventura professionale. La fiducia accordata fino al martirio al gruppo di Wembley suona come un tributo di gratitudine del tecnico ai suoi ragazzi, con i quali ha costruito una piccola epopea sportiva in un decennio in cui l’Italia non ha brillato in campo internazionale. Forse Mancini avrebbe potuto seguire il consiglio che l’imperatore Adriano morente dà al suo discepolo nel capolavoro di Margherite Yourcenar, e cioé: abbi il coraggio di scaricare i tuoi preziosi alleati un attimo prima che diventino per te pesanti zavorre. Il ct non se l’è sentita, e questa ormai è storia. Ma è pur vero che, quand’anche avesse voluto cambiare tutto e prima, non avrebbe avuto una grande scelta.
Piuttosto che recriminare, ora bisogna guardare avanti, sperando di avere nuove frecce all’arco. Gnonto è certamente una di queste, e lo ha dimostrato in trenta minuti esemplari. Ma al netto dell’azzardo che suona quasi naturale quando non si ha più niente da perdere, avendo già perso tutto il perdibile, è necessario che il coraggio di Mancini sia sostenuto da una politica sportiva esattamente opposta a quella che il calcio italiano ha fin qui perseguito. Da ultimo con l’imbarazzante esempio dei due laziali, Zaccagni e Lazzari, che hanno lasciato il ritiro per un insondabile infortunio.
O la Nazionale torna al centro del progetto strategico dell’intero movimento sportivo, oppure tra i campanili della serie A e il podio delle grandi competizioni internazionali si apre un solco incolmabile. A quel punto possiamo anche cantarcela e suonarcela nell’orto di casa, immaginando che la sfida delle milanesi per lo scudetto sia l’evento più importante del mondo. Salvo scoprire che altrove non giocano solo meglio di noi, ma piuttosto giocano qualcosa che somiglia a un altro sport, per noi inarrivabile.
Ricordare questi concetti nel giorno in cui la Nazionale si risveglia e spaventa la più forte Germania è non solo utile, ma doveroso. Perché la tentazione di abbonarci al miracolo è per noi un vizio difficilmente estirpabile. Frattesi, Scamacca, Tonali, Pellegrini, Bastoni, e poi ancora Barella e Raspadori sono ragioni di speranza. Ma per ricostruire un’egemonia occorre disporre, da qui a due anni, di tre o quattro volte il numero di talenti già rodati per competizioni che contano, con alle spalle un numero di partite nazionali e internazionali, senza le quali una figuraccia come quella patita con l’Argentina prima o poi ricapita. Meglio soffrire che consolarsi sulle illusioni.