La condanna ad altri quattro anni di esilio dal Mondiale arriva come una sentenza d’appello che raddoppia la pena. Siamo colpevoli di inadeguatezza tecnico-agonistica, ma soprattutto di egoismo, di superficialità, di azzardo. Sono colpe gravi. Abbiamo snobbato l’azzurro e l’azzurro adesso macchia tutti i colori del calcio italiano. L’esclusione è figlia dell’insipienza e dell’arroganza dei club, che non hanno concesso a Mancini neanche una settimana di ritiro. Abbiamo privilegiato Empoli-Verona a Italia-Macedonia. E adesso ci teniamo Empoli-Verona e guardiamo in tv il Mondiale degli altri. Siamo rimasti abbarbicati al calcio del campanile, abbiamo rinunciato a cooperare e a investire sul futuro. E il futuro adesso ci riserva quattro anni di irrilevanza, un posto in meno nella Champions e un contraccolpo finanziario che colpirà tutte le società di serie A. Questo è il fondo, il punto più basso mai raggiunto nella nostra storia. Per la prima volta l’Italia buca due appuntamenti mondiali. E lo fa dopo aver conquistato il podio europeo. Un trofeo da difendere con i denti, che avrebbe meritato ben altro investimento.
La partita maledetta, dove pure tutto va storto, non è la fatalità che veste d’assurdo la notte di Palermo. Ma è piuttosto la fotografia realistica dell’approssimazione strategica e della mancanza di responsabilità con cui abbiamo affrontato un appuntamento così importante, dopo la zoppicante fase di qualificazione in autunno. Non c’è il tempo per provare niente, aveva detto Mancini alla vigilia. Non per recriminare, ma perché restasse agli atti. Il ct è stato costretto dagli eventi a scommettere su una memoria, quella del successo europeo. Ma il successo non è congelabile. Presuppone una continua messa in discussione degli equilibri. La Nazionale non ha vinto a Wembley per caso, ma per merito. Tuttavia non era una squadra imbattibile e si portava dentro alcune contraddizioni che la coesione del collettivo aveva nascosto. Ma che richiedevano di essere risolte. Le egemonie devono evolvere, altrimenti le loro impalcature crollano e viene giù il Palazzo.
Il silenzio assordante che gela la Favorita dopo i tre fischi finali dell’arbitro simboleggia un crollo così radicale da apparire un’evaporazione. Ma, a voler guardare in controluce il disastro, si vedono tutti gli errori del calcio italiano. Dai debiti agli azzardi di mercato, dagli stipendi irragionevoli alla mancanza di stabilità tecnica delle panchine, dall’investimento su costosi stranieri decotti all’assenza di vivai, dagli stadi preistorici al ruolo intimidatorio che hanno assunto gli ultrà. Di questi vizi fa parte l’indifferenza che circonda la Nazionale, subita e osteggiata dai club come fosse un ingombrante e fastidioso fardello. C’è in questo atteggiamento tutta la miopia e l’immaturità della classe dirigente del calcio, la sua masochista rissosità.
Non ci stupiremmo se qualcuno cercasse di strumentalizzare l’esclusione per colpire un capro espiatorio. Gabriele Gravina è già sotto tiro. Ma la sua capitolazione scriverebbe un racconto capovolto degli ultimi anni. Perché sotto la sua guida il calcio è uscito con dignità dalla pandemia, ha recuperato una credibilità nel rapporto con le istituzioni, e ha tentato di avviare un ciclo per la Nazionale, la cui interruzione dipende dalle lacune strutturali del sistema che qui abbiamo descritto. E che meriterebbero un’onestà presa di coscienza da parte dei padroni delle società, a cominciare dalla disponibilità, fin qui assente, a cooperare con la federazione per un risanamento, una rifondazione, un rilancio e una valorizzazione di un progetto comune. Il declino della Nazionale è l’altra faccia del declino dei club. Si riparte insieme così come insieme si è sprofondati.
Non sappiamo se Mancini lascerà la guida dell’Italia. Avrebbe tutte le ragioni per farlo. Dopo un successo straordinario meritava ben altro sostegno. Ma ci auguriamo che si contenti di porre condizioni precise e di tornare a ricostruire, garantendosi spazi e tempi per sperimentare con coraggio, così come ha potuto fare nella prima parte del suo mandato. La gratitudine dei tifosi italiani è nei suoi confronti intatta, ed è il miglior balsamo per lenire l’amarezza. La nostra chiusa è perciò una preghiera al ct.