Si va incontro al destino con i più affidabili, e non è detto che siano i migliori. Ma non c’è tempo per provare e per giudicare, e neanche per recriminare. Mancini è un campione di realismo e di maturità: dissimula i suoi pensieri dietro a uno slogan, l’unico possibile per un tecnico che dispone di soli due giorni per preparare le partite della vita: «Voglio vincere il Mondiale», dice. Più che un obiettivo è una professione di fede. Gli avevamo chiesto di avere coraggio, di rimettere in discussione l’equilibrio raggiunto, di fare evolvere l’Italia di Wembley. Sbagliavamo. Nessuna richiesta si può porre a un ct costretto in un pomeriggio a decidere chi sta bene e chi no, con quale modulo affrontare gli avversari, chi calcia i rigori, e molte, troppe altre cose. Qui si compie tutto l’autolesionismo del calcio italiano. Se la Nazionale è l’unica bandiera capace di sventolare oltre il confine, se è la più ghiotta occasione di rilancio economico e d’immagine per il sistema, non si capisce perché la si tratti come un paria.
E le si neghi il minimo sindacale che spetterebbe a chi deve, in cinque giorni, vincere contro la Macedonia e, si presume, contro il Portogallo. Se Mancini cadrà nel doppio spareggio, nessun addebito potrà essergli mosso. Perché le condizioni di agibilità garantite alla sua gestione sarebbero inaccettabili per qualunque allenatore professionista. Il rischio di bissare l’esclusione dal Mondiale non spezza il disinteresse che circonda il destino della Nazionale. Nessuno spazio per un ritiro, nessun rinvio di almeno un turno di campionato condannano il ct a lavorare sulla riattivazione dei ricordi migliori, quelli del l’Europeo vittorioso. A dispetto del fatto che è passato quasi un anno, che alcuni di quei protagonisti sono infortunati - Chiesa e Spinazzola -, che altri non sono nelle migliori condizioni di forma, e che l’affiatamento estivo non ha retto alla prova dei test autunnali di qualificazione. È un paradosso. Il periclitante destino del calcio italiano, appeso alle chance della Nazionale, alla Nazionale non concede che lo spazio di un intermezzo tra il flusso delle sue mediocri partite di serie A e di Coppe. Dove peraltro lo spazio per gli azzurrabili si fa sempre più stretto, soprattutto per i giovani che, come denuncia il ct dell’Under 21, nella fase calda del campionato non giocano più.
Se il ct spagnolo Xavi può permettersi di arrivare in Qatar sulle gambe di due adolescenti, come Pedri e Gavi, Mancini è appeso alla convalescenza del trentasettenne Chiellini: «Sarà lui - dice il ct - a decidere se gioca». Perché un’alternativa credibile non c’è, e non ci sono le condizioni per crearla. La responsabilità del tecnico azzurro che, abbottonato come un pastore protestante, professa una fiducia alla quale forse lui stesso fa fatica a credere, fa da contraltare all’ipocrisia dell’intera classe dirigente del calcio. Che a parole si riempie la bocca con la Nazionale. Ma sotto sotto, e contro i suoi stessi interessi, la Nazionale considera un fastidioso inciampo. È così facendo sì condanna all’irrilevanza. Speriamo di sbagliare. Speriamo che il Paese campione nelle emergenze dimostri, anche in questa, di avere il colpo di reni per farcela, contro ogni ostacolo e pronostico. Speriamo non sia necessaria un’altra figuraccia, dopo quella di Ventura nel 2018, per iniziare a fare sistema. Ascoltando la voce dei sette, o forse dieci, o forse tredici milioni di italiani, pronti a soffrire davanti alla tv per quella che loro considerano la prima tra tutte le squadre del cuore.
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