L'intervista impossibile: Nils Liedholm

Abbiamo immaginato di scambiare due chiacchiere con uno degli allenatori più iconici della storia della Serie A. Con lui, il Milan vinse lo Scudetto della Stella e la Roma divenne grande
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Di personaggi come lui, oggi, non ce ne sono più. La cosa, però, sorprende poco, dal momento che anche ai suoi tempi, di protagonisti nel mondo del calcio che potessero avvicinarsi a Nils Liedholm non ce n’erano. Non a caso i suoi contemporanei gli assegnarono honoris causa il titolo di Barone: più per i suoi modi affabili e mai scaduti nella maleducazione che per il fatto di aver sposato una nobildonna piemontese.

Del calcio aveva una concezione sublime: un’orchestrata miscellanea di disposizioni tattiche, nozioni tecniche e capacità fisiche che dovevano mettere la squadra nella posizione centrale di un ipotetico ring dalla quale sferrare attacchi agli avversari nei momenti più inaspettati. In Italia fu il primo a convincere critica e pubblico della bellezza e dell’efficacia del gioco a zona, predicato con lezioni sospese tra filosofia calcistica e battute paradossali sempre appropriate a discenti che non trovavano argomenti per poterlo contraddire.

Classe, eleganza e carisma caratterizzarono la sua lunga esperienza di allenatore, durante la quale ebbe la lungimiranza di lanciare, ancora molto giovani, prospetti che divennero campioni: Bettega, Antognoni, Di Bartolomei, Conti, Baresi, Maldini. Due le squadre più importanti della sua vita: il Milan, di cui era tifoso, e l’amata Roma, nel tempo in cui la città sapeva ancora incantare i suoi migliori avventori. Abbiamo immaginato di fare un lunga, rigenerante chiacchierata con un uomo di cui il calcio moderno sente terribilmente la mancanza.

Mister, non riesco a darle del tu, vado avanti col Lei: mi vuole raccontare quando iniziò la sua esperienza in Italia?

(Sfoggia il suo sorriso ironico, ndr) Ricordo che era l’8 agosto del 1949, fu una lunga notte. Nordahl e sua moglie, l’allenatore Czeizler e il direttore tecnico del Milan, Busini, fecero su di me una pressione incredibile per persuadermi. Alla fine, più per stanchezza che per convinzione, quando si era quasi fatto giorno accettai il trasferimento. Prima di partire volli anche tranquillizzare mio padre. Gli dissi: tranquillo papà, resto un anno, al massimo due, e poi torno.

 Il primo ricorso a una delle sue celebri bugie, un po' come quando dava le percentuali per la vittoria dello scudetto, basse anche se ormai l’aveva quasi vinto.

A volte sono necessarie ma quella volta ero sincero: non sapevo cosa mi avrebbe riservato la vita.

 Al Milan ricostituì il famoso trio con Gren e Nordahl.

Insieme stavamo bene: Gren sapeva suggerire il gioco in modo magistrale, Gunnar era un centravanti formidabile, potentissimo.

E lei?

Io correvo per il campo perché mi piaceva: da ragazzo avevo fatto sport che avevano rinforzato le mie capacità di resistenza, che mettevo volentieri al servizio della squadra. Ma di certo non disdegnavo passaggi smarcanti e tiri in porta, anzi: una volta diventato allenatore, la tecnica di base era uno dei capitoli dell’allenamento sul quale mi focalizzavo di più coi miei giocatori. Spesso, alla fine delle sessioni giornaliere, mi fermavo con coloro che avevano più bisogno di migliorare cercando di insegnargli al meglio i fondamentali.

Quindi è vero che San Siro le tributò un applauso lunghissimo quando sbagliò un passaggio?

Si, è vero: era tanto tempo che non accadeva. Vedi, non racconto bugie… (sorride, ndr). 

E’ anche vero che non è mai stato ammonito.

Sì, anche questo è vero: amavo il calcio nella sua combinazione di tecnica e fisicità ma mi piaceva rispettarne le regole. Anche quando ho intrapreso la carriera di allenatore ho sempre evitato di fare polemiche con gli arbitri o altri.

Cosa ha rappresentato la Nazionale per lei?

E’ bello poter rappresentare il proprio Paese ai massimi livelli del calcio mondiale. La Nazionale mi ha dato questa opportunità.

Nel 1999 un sondaggio effettuato dal più diffuso quotidiano svedese ha detto che lei è stato il più importante calciatore della storia del suo Paese.

Non so se sono stato davvero il più importante ma ho accolto quel risultato con molto piacere.

Meglio la vittoria alle Olimpiadi del 1948 o il secondo posto ai mondiali del 1958?

Forse le Olimpiadi ebbero più importanza per la Svezia, soprattutto perché ci dettero la consapevolezza di quanto valevamo dopo l’isolamento della guerra. Ricordo con affetto quel torneo: innanzitutto perché lo vincemmo. E poi perché il selezionatore svedese, mister Krek, mi fece un complimento che non ho mai dimenticato: disse che se avesse potuto disporre di undici Liedholm, avrebbe battuto ogni avversario (altro sorriso, ndr).

La sua ultima partita con la Svezia fu proprio la finale dei mondiali 1958. Giocavate in casa ma quel Brasile proprio non ce la faceste a batterlo…

Il fatto è che noi non avevamo visto nessuna partita del Brasile prima. Loro, invece, sapevano come giocavamo.

Mister, mi perdoni ma questa somiglia tanto a una delle sue affermazioni cariche di ironia: quello era il Brasile di Pelé.

Credimi, l'impressione che ha lasciato Pelé quel giorno non è nulla rispetto a quella che fece Garrincha: un giocatore incredibile.

Perché decise di fare l’allenatore?

Perché mi piaceva. Credo che, in qualche modo, allenare fosse la conseguenza naturale del modo in cui avevo interpretato il calcio da giocatore. Lo amavo come sport, come espressione di intelligenza collettiva, come unione di diverse abilità: tecniche, fisiche e mentali. E mi piaceva l’idea di dare la mia impronta estetica al calcio italiano.

Capello e Ancelotti, due tra i più grandi allenatori italiani di sempre, li ha gestiti lei: le hanno rubato il mestiere?

Credo che qualche segreto possano averlo appreso anche da me, soprattutto per quanto riguarda l’impostazione del gioco mirata al possesso del pallone. Lo dicevo sempre ai miei giocatori: meglio stancarsi avendo il pallone tra i piedi piuttosto che dovendo rincorrerlo. Si fatica di meno.

Secondo lei chi è stato il più grande calciatore di tutti i tempi?

Non ho dubbi: Alfredo Di Stefano. Era un motore abbinato alla tecnica, la sintesi migliore delle qualità calcistiche che più apprezzo.

Lei ha vinto molto anche nelle vesti di allenatore: qual è il successo a cui si sente più legato?

La salvezza del Monza conquistata nella stagione 1968-69. La squadra non era partita bene, nelle prime quattro partite non aveva ottenuto neanche una vittoria. Fui chiamato per salvarla dalla Serie C e, con l’impegno di tutti, riuscii a ottenere il risultato, facendo un ottimo girone di ritorno. 

E’ vero che nel 1973 rifiutò la Juventus?

Non andai a Torino per una forma di lealtà verso il campionato: se avessi allenato la Juventus la Serie A non avrebbe avuto storia (solito sorriso ironico, ndr).

Nel 1979 trascinò il Milan a vincere lo scudetto della stella praticamente senza centravanti.

Non è vero, il nostro attaccante era Stefano Chiodi, che non segnava molto ma faceva un ottimo lavoro per i centrocampisti avanzati che si muovevano alle sue spalle. Quell’anno c’erano Rivera, Bigon e Novellino che sapevano dare un elevato contributo qualitativo alla manovra della squadra, che sull’out di sinistra approfittava delle continue discese di Aldo Maldera. E in difesa, coi vari Albertosi, Collovati e Franco Baresi, eravamo blindati.

Poi tornò a Roma.

Il presidente Viola, col quale ebbi sempre un ottimo rapporto, mi chiamò dicendomi che avrebbe comprato la Roma a condizione che l’avessi allenata io. Non ebbi difficoltà ad accettare: avevo capito che il ciclo del Milan era finito e di Roma avevo bei ricordi. Inoltre il presidente aveva progetti ambiziosi che mi affascinavano.

Lei e Viola foste i primi a conferire ai giallorossi la dignità della grande squadra.

Era il progetto ambizioso a cui facevo riferimento prima. Volevamo vincere praticando un calcio moderno, esteticamente godibile, che facesse innamorare i tifosi e guadagnasse il rispetto degli avversari. Ci riuscimmo. Peccato che la finale contro il Liverpool non ci abbia consacrati definitivamente anche a livello internazionale.

Perché decise di tornare al Milan?

Anche quella volta compresi che si era concluso un ciclo, quanto meno il mio. Suggerii al presidente di sostituirmi con un allenatore svedese giovane e dalle idee moderne, Sven-Goran Eriksson, e tornai a Milano. Volevo avvicinarmi a casa mia, in Piemonte.

Al di là dei rapporti professionali, c’è una squadra di cui è stato tifoso?

Sì, il Milan: ne sono stato giocatore tanti anni, capitano, bandiera, allenatore l’anno del decimo scudetto, quello della Stella. Non potevo non esserne tifoso.

E la Roma?

Roma mi entrò nel cuore, l’ho amata perdutamente per tutta la vita. Mi piaceva vivere al centro. I tifosi, poi, mi hanno trattato come un re. Fantastica.

L’avversario con cui ha rivaleggiato di più?

La Juventus, senza dubbio. Le partite contro i bianconeri le sentivo ancor più dei derby. Credo sia normale: sia al Milan che con la Roma è stata la squadra contro cui mi sono trovato più spesso a dover fare i conti.

Com’è stato il suo rapporto col presidente Berlusconi? Si dice che lui, personalità forte, soffrisse il suo carisma e la sua competenza.

Un ottimo rapporto. Quando portò Sacchi al Milan voleva che rimanessi come dirigente. Chissà, forse era un modo per rimuovermi senza farmi male ma io mi sentivo ancora un uomo di campo e, avendo la proposta di tornare alla Roma, la accettai. Organizzò una cena a San Siro per il mio 80° compleanno: c'erano tutti. Lui, Confalonieri, Galliani, i giocatori... L’ho visto anche scendere in campo.

Parla dell’esperienza politica?

No no, l’ho visto giocare a calcio: era un centravanti molto veloce!

Mister, ci dobbiamo lasciare: grazie per questa lunga chiacchierata. In conclusione come la saluto: con un forza Milan o con un forza Roma?

Tutte e due, naturalmente!


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