Omar Sivori, un genio ribelle

Fantasioso e provocatore, l'argentino è stato uno dei più grandi di sempre. Pallone d'Oro nel 1961, con la Juventus vinse tre scudetti e a Napoli chiuse la carriera
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Quando arrivò in Italia, ad attenderlo c’erano migliaia di tifosi juventini e lui fece quattro giri di campo palleggiando senza mai far cadere la palla a terra. Quando andò via, i napoletani, per convincerlo a restare, portarono in processione una sua statua. Enrique Omar Sivori è stato un idolo delle folle, un personaggio in grado di accendere i cuori come nessun altro, forse, aveva fatto fino ad allora. 

VIZIO - Nato a San Nicolas, 200 km da Buenos Aires, nel 1935, Sivori sbarcò a Torino a 22 anni, dopo aver vinto tre campionati col River Plate e una Coppa America con l’Argentina: impazzava la moda degli oriundi e lui lo era davvero, visto che i nonni erano liguri (e infatti giocherà nove partite con la maglia azzurra, segnando 8 gol). Alla Juventus vinse lo scudetto al primo colpo e fece innamorare tutti, compreso l’Avvocato che lo definì «più che un fuoriclasse, un vizio: sai che alla lunga non ti farà bene, ma non puoi farne a meno». Ubriacava gli avversari con le sue finte e il suo marchio di fabbrica, il tunnel, spesso superandoli e fermandosi per dribblarli una seconda se non una terza volta. Provocava e reagiva: ne nascevano continue risse in campo, gli arbitri intervenivano, lui li contestava e loro lo cacciavano. Alla fine collezionerà, nei suoi 11 anni italiani, 33 giornate di squalifica. Con la Juve di scudetti ne vinse tre, tutti nei primi quattro anni, prima che il dominio bianconero fosse scalzato dalla Grande Inter di Herrera. Che Sivori aveva battezzato, il giorno in cui, per protesta contro la Federcalcio, Angelo Moratti aveva deciso di mandare in campo la Primavera nella ripetizione dello scontro scudetto del 1961. In quella partita l’argentino segnò sei gol: prima di lui in Serie A c’era riuscito solo Silvio Piola, dopo non ci riuscirà più nessuno. 

 

A NAPOLI - Nel 1965 sulla panchina juventina arriva Heriberto Herrera, un paraguaiano che chiede ai suoi giocatori un’applicazione tattica e una dedizione in allenamento che Sivori considera un’offesa al suo talento. Il tempo di vincere una Coppa Italia e, dopo un anno costellato di litigi, l’argentino chiede la cessione. Achille Lauro, pirotecnico presidente del Napoli, non si lascia sfuggire l’occasione e si guadagna la riconoscenza eterna dei suoi tifosi, che a Sivori riservano un amore pari solo a quello che vent’anni dopo mostreranno per un altro argentino, Diego Armando Maradona. Al primo anno, insieme ad Altafini, Sivori porta subito il Napoli a vincere il suo primo trofeo, la Coppa delle Alpi, e ad eguagliare il miglior piazzamento della sua storia, un terzo posto che mancava da 31 anni e che verrà superato dal secondo raggiunto due anni dopo. Poi un fastidioso infortunio al ginocchio e una vita non proprio da atleta lo relegano ai margini della squadra.

 

L’ADDIO - Nel suo quarto anno in azzurro (1968) esordisce solo a novembre e il 1° dicembre al San Paolo arriva proprio la Juventus di Herrera che gli mette alle costole un terzino, Erminio Favalli, con il compito preciso di mordergli le caviglie. Dopo un quarto d’ora sono entrambi già ammoniti: appena un minuto dopo Favalli fa ostruzione su Sivori e l’argentino lo sgambetta. L’arbitro non sente ragioni: cartellino rosso. L’argentino cerca di farsi giustizia da solo con l’avversario e provoca una maxirissa che gli costerà sei turni di squalifica. Qualche giorno dopo, Sivori convoca i giornalisti e annuncia il suo addio all’Italia e al calcio. Torna in Argentina, dove intraprende prima la carriera di allenatore (guiderà anche la Nazionale per 14 partite). Rimase legatissimo alla Juventus, per cui lavorerà come osservatore, ma anche al Napoli: «A me è rimasta l’idea – disse poco prima di morire a 69 anni – che Napoli mi ha dato molto e io ho dato meno di quello che Napoli ha dato a me. E questa è una cosa cui non si può più rimediare». 


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