Di Bartolomei: indimenticabile capitano giallorosso

Un'icona in cui tanti tifosi della Roma si sono identificati: "Ago" disputò 11 stagioni nella Capitale, poi passò al Milan dove giocò dal 1984 al 1987
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ROMA - “Oh Agostino… Ago, Ago, Ago Agostino gol!”. È stato questo il coro che più di ogni altro ha unito i tifosi della Roma prima di Totti, prima di Giannini, oltre Bruno Conti. Ragazzi di Roma, figli di una città complessa, proiezione naturale sul campo di calcio di tanta e tanta gente innamorata di una squadra spesso disperatamente inadatta alle ambizioni dei suoi tifosi. Di Bartolomei, esordiente in Serie A con la maglia giallorossa appena diciottenne alla Scala del calcio contro l’Inter, era un romano atipico che di quel coro faceva un vanto mai sbandierato. Proprio come il suo carattere, atipicamente, si diceva, riservato, poco propenso alle esuberanze caciarone, talvolta scomposte che bonariamente si riconoscono ai cittadini della Capitale. Persone che a quel ragazzo imbrunito, parco di sorrisi, si sentivano profondamente legate, degnamente rappresentate da un uomo finanche troppo serio, che amava il calcio ma sapeva tanto anche d’altro. Difficile capire il legame viscerale con la sua gente a meno che non lo si sia visto giocare.

CAMPIONE SILENZIOSO - Già, perché i silenzi custoditi da Agostino Di Bartolomei erano una barriera che il campo di gioco trapassava, rendendo evidente la sostanza di un uomo, prima ancora che di un calciatore, ammantato di forza fisica e lucidità mentale, caratteristiche che sapeva combinare al meglio coi suoi tiri al fulmicotone e i suoi lanci a tagliare il campo, aperture a lunga gittata capaci di ribaltare il senso di un’azione e le prospettive di un risultato. Difficile, per chi l’ha visto scendere in campo, ricordarne una giocata effimera, un colpo di tacco, una distrazione; impossibile, per chi vuole studiarlo oggi, rintracciarne immagini che testimonino un ricamo inutile, un cedimento al superfluo. Anche se Ago di tecnica ne aveva da vendere, cresciuto e coccolato dal “Barone” Liedholm, che nel modo in cui batteva le punizioni per qualche attimo riusciva a rivedersi: forza e precisione che solo osservatori senza perizia non riuscivano a ricondurre a grandi doti di tocco. Leale con i compagni, pronto a supportarli e redarguirli secondo necessità e contingenze, sopra la media per cultura e capacità espressive, non poteva non essere lui il capitano della Roma che vinse il secondo scudetto. Più geometrico di Conti, più vicino ai tifosi di Falcao, più esperto di Ancelotti, Di Bartolomei meglio di tutti sapeva portare quella fascia che unisce bravura e autorevolezza, forza ed equilibrio, capacità di relazionarsi e di gestire i conflitti. Qualità che, dopo l’anno di formazione speso a Vicenza nel 1975-76, lo resero titolare inamovibile della squadra giallorossa per otto stagioni consecutive, nelle quali rappresentò al meglio la voglia di spingere il gruppo attraverso il miglioramento di se stesso. Lui era una parte di Roma che indossava la maglia della Roma; era l’approdo della realtà nel sogno; era il ragazzo di Tor Marancia che ce l’aveva fatta, che aveva vinto lo scudetto, che scambiava i gagliardetti a centrocampo prima che iniziasse la finale di Coppa dei Campioni.

FINALE AMARA - Già. Quella finale. Difficile non pensare che la data del 30 maggio 1984 per Agostino non sia rimasta una ferita mai rimarginata come per centinaia di migliaia di altri tifosi, scippati di un sogno trasformato in un incubo. L’ultima vittoria con la sua maglia la ottenne il 26 giugno 1984, 1-0 contro il Verona. Una vittoria che significò Coppa Italia, la terza dell’era Viola, per lui doppiamente amara: perché non curava la ferita del 30 maggio e perché rappresentava l’addio al suo mondo. “Ti hanno tolto la Roma, non la tua curva” recitava un commosso striscione in Curva Sud. Di Bartolomei dovette lasciare la sua squadra, che per provare a rinascere e reiventarsi grande aveva scelto un giovane allenatore svedese che il calcio lo immaginava senza Agostino. Lui, certamente deluso, salutò con la solita, irrinunciabile dignità. Si trasferì al Milan, voluto dal maestro Liedholm per riportare il Diavolo a livelli di competitività accettabili. Ritrovò la Roma sulla sua strada da avversario: la prima volta a San Siro, quando fu suo il primo gol del 2-1 finale.

IL RITORNO - Il 24 febbraio 1985, il ritorno è una giostra di emozioni che passa dal caloroso benvenuto di tutto l’Olimpico agli insulti di frustrazione innescati da una nuova sconfitta della squadra di Eriksson e dalla lite, a fine partita, con l’ex compagno Ciccio Graziani. Un ritorno amaro per colui che, fino a pochi mesi prima, era riuscito a essere profeta in patria. Tre campionati da titolare inamovibile con la maglia rossonera non bastarono per arricchire il suo personale palmares: sfiorò soltanto la sua quarta Coppa Italia, arrivando a disputare la finale nella stagione 1984-85 vinta dalla Sampdoria di Vialli e Mancini. Non riuscì a far parte del Milan vincente di Berlusconi per motivi di età e di credo calcistico: lasciò i rossoneri in concomitanza dell’arrivo di Arrigo Sacchi che, come Eriksson, amava le accelerazioni continue, il pressing e il fuorigioco. Ago non era più un ragazzino, il calcio stava cambiando. Chiude in provincia, lontano dai grandi palcoscenici a cui era abituato: un anno a Cesena, l’ultimo in Serie A, prima di scendere in C1 a Salerno per aiutare la squadra a riconquistare la Serie B dopo 23 anni. È il passo d’addio, l’ultimo bagliore di luce che illumina la strada di Agostino. In soli quattro anni perse gradualmente entusiasmo e voglia di vivere. Nell’ombra dei suoi silenzi, il 30 maggio 1994, anche le sue speranze persero il respiro. Che quella data sia stato frutto di una scelta emblematica o del caso, a chi è rimasto non è dato sapere.


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