Lo sport, nell’Italia del 1947, ha due padroni: il Grande Torino domina la Serie A, mentre Fausto Coppi conquista ogni vetta del Giro in sella alla sua Bianchi. A Padova, il 31 ottobre, nasce Alberto Bigon: una zia stravagante va all’anagrafe e lo segna coma Albertino, un nome che lui non gradisce così tanto. Scripta, però, manent. Il bambino, a 13 anni, si presenta a un provino con gli scarpini in una busta di plastica: entra nelle giovanili del Padova e viene definito “prodigio”. Mariano Tansini e Mario Alfonsi gli insegnano il valore del calcio al di fuori del campo. Trasmettono al ragazzo il significato di gruppo, di spogliatoio, di squadra, tutto questo lo porterà lontano. Intanto, Albertino, cresce guardando campioni del calibro di Boniperti, Sivori e Charles. Arriva in prima squadra dopo aver vinto il campionato Primavera e nel 1967 trascina il Padova in Coppa Italia: ai quarti battono il Napoli, ma perdono all’ultimo atto contro il Milan. Non è un caso, sono le due squadre della sua vita. Quello stesso anno arriva ai piedi del Vesuvio, ma ci sono Altafini, Sivori e tanti altri campioni. Non ha spazio e finisce in prestito alla SPAL. Trova la sua rivincita 23 anni dopo: nel 1990.
TRIONFI AZZURRI - Da allenatore porta il Napoli al secondo Scudetto della sua storia, vinto grazie a un sinistro magico, a una monetina e alla grande capacità di Bigon di gestire il gruppo. Diego Armando Maradona agli allenamenti non c’è quasi mai, ma in campo illumina. A Bergamo, l’8 aprile, Alemao viene ferito dal lancio di una monetina e lo 0-0 sul campo dell’Atalanta diventa un 2-0 a tavolino. Esplode la polemica, ma alla penultima giornata è ancora tutto da decidere: un’altra “Fatal Verona” condanna il Milan, il Napoli vince 4-2 a Bologna. Una settimana dopo, il 29 aprile 1990, il San Paolo ribolle: una città attende la festa, il gol di Baroni è la miccia. Napoli esplode. Campioni d’Italia. Gli insegnamenti di Tansini e Alfonsi sono serviti a Bigon a creare un gruppo unito, formato da campioni internazionali, giovani promesse e uno scugnizzo che incarna l’anima della città: Ciro Ferrara. Un gioco improntato alla difesa, tutto il contrario di quando Albertino era un centravanti e pensava alla manovra offensiva. Il suo Napoli è una squadra quadrata, pratica, con carattere, che rispecchia esattamente il proprio allenatore. Un po’ fortunato, un po’ geniale: la verità sta nel mezzo. L’1 settembre successivo, Bigon dimostra di non aver solo la sorte dalla sua parte. In Supercoppa rifila una cinquina alla Juventus di Roberto Baggio. La favola, però, finisce a Mosca, con la squadra che prende l’aereo senza “El Dies” per affrontare negli ottavi di finale di Coppa dei Campioni lo Spartak Mosca. Diego Armando Maradona raggiunge i compagni solo all’ultimo, ma non basta il suo mancino per vincere ai rigori. Addio sogni europei. Finisce il ciclo “Maradoniano”, e Bigon scende in Serie B, ad allenare il Lecce.