Valentin Angelillo arriva nella Roma della Dolce Vita per colpa della sua dolce vita. Uno dei tre angeli dalla faccia sporca (con Sivori e Maschio, arrivati tutti insieme in Italia nel 1957), all’Inter ha segnato 33 gol nel 1958-59, record imbattuto nella Serie A a 18 squadre, con accanto Firmani, Bicicli e il giovane Corso. In quegli anni, si innamora di una ballerina divorziata, Ilya Lopez, che si esibisce al night “Porta d’Oro”. I tifosi arrivano anche a inseguirla, e lei perde il bambino che sta aspettando. Sono lontani i tempi di una visita a Sanremo, ospiti di Moratti, insieme anche a Pesaola, che mette su un bar improvvisato davanti al casinò. Herrera lo schiera sempre meno. Non gioca nemmeno a San Siro, il 15 gennaio 1961, contro la Roma di “Piedone” Manfredini, che lo conosce da sempre e gli lascia balenare l’idea di passare in giallorosso. Angelillo, figlio di un macellaio di origine italiana, i cui nonni lucani emigrarono da Rapone, cresciuto all’Arsenal come Alfredo Di Stefano e passato al Racing Club poi al Boca prima di venire in Italia, ci pensa eccome. Anacleto Gianni, il presidente che sogna il grande colpo, completa la trattativa per 230 milioni. Angelillo, uno Schiaffino più giovane, completa un tridente che apre sogni inattesi per i tifosi con Lojacono e Manfredini, uno dei suoi primi ammiratori. In Italia, Angelillo ha imparato tutto tranne come giocare a pallone, quel calcio dell’anima è figlio di quella storia sudamericana in cui il calcio è un’armonia e un’allegria del tango. In Italia, però, individua la sua vera posizione: centravanti con Stabile in nazionale, crea gioco come mezzala arretrata.
IN GIALLOROSSO. In quattro stagioni a Roma, vince una Coppa delle Fiere e la prima Coppa Italia nella storia giallorossa, anche se manca il suggello dello scudetto. Angelillo, ha detto Giacomo Losi in un intervento a Roma Radio in occasione della morte dell’italo-argentino, scomparso il 5 gennaio 2018 al policlinico Le Scotte di Siena, «era una grande persona, un ottimo compagno di squadra: non era difficile essere suo amico. È stato un calciatore fortissimo e intelligente, un sudamericano atipico. Ce n’erano pochi come lui: era un giocatore a tutto campo, era lui a iniziare le azioni, aveva una grande personalità. Era uno degli ispiratori del gioco della squadra, quando non sapevi cosa fare bastava affidargli la palla».
Gioca poi nel Milan e nel Lecco, per poi allenarsi con l’Almas, la squadra dilettantistica guidata da Naim Krieziu, che era stato suo allenatore in giallorosso. Il suo impegno non sfugge al Milan che lo richiama: con tre presenze nel 1967-68, diventa campione d’Italia. E la storia si chiude.