Di uruguagi, la storia del nostro calcio è piena. Oriundi o purosangue, la Serie A è sempre stata sin dagli albori colonia fertile per i giocatori provenienti dal sud-est del Rio de la Plata, e ognuno di essi ha portato con sé doti particolari. Paolo Conte decantava la genialità di Schiaffino, che riempiva di “oooh!” le bocche dei tifosi del Milan, dall’altra parte del Naviglio i portieri non sapevano cosa aspettarsi quando in campo scendeva il talento di Recoba, e a Torino gli attaccanti avversari non erano di certo entusiasti di finire marcati a uomo da Montero. Poi c’era lui, piccolo, veloce, furbo, potente e anarchico quanto basta per fare innamorare gli appassionati di calcio, non importa se di Roma o Milano, il pallone è un amore che coinvolge tutti e non fa discriminazioni di maglia. Chiedere per esempio a Ruben Sosa, il protagonista di questa storia, una sorta di “cittadino onorario” nelle due più grandi città italiane. Meriti? Prettamente calcistici. Non tutti possono permetterselo.
RUBEN SOSA, LE ORIGINI. Nascere a est del Rio de la Plata significa venire al mondo e crescere in un Paese in cui il Futbol (maiuscola non per caso) è quello dei caudillos, i difensori centrali anima delle più grandi vittorie della storia della Celeste. Ma col sinistro che si ritrovava, l’unico posto certo per Ruben Sosa era la zona offensiva: seconda punta, centravanti, sulla fascia sinistra, è uguale, lui era lì, a mettere a disposizione tutta la sua fantasia e i suoi gol. In Uruguay scala rapidamente le gerarchie delle giovanili del Danubio, dove arriva a 15 anni. È a quell’età che debutta in Primera Divisiòn nel 1982, grazie all’allenatore Sergio Markarian, uno di quegli uruguagi convinti di dover cambiare il corso della storia del calcio per diritto di nazionalità, e come dargli torto. A Montevideo gioca fino al 1985, quando arriva la chiamata irresistibile dell’Europa. È il Saragozza ad acquistarlo e a beneficiare del suo talento. In Spagna, Sosa dimostra che può competere nel calcio che conta, e trascina i Blanquillos alla conquista di una Coppa del Re ai danni del Barcellona.
RUBEN SOSA ALLA LAZIO. Arriva il momento di salire di livello. È così che la Lazio si fa avanti e lo porta a Roma nell’estate del 1988. È una Lazio reduce dalla promozione in A, che ha salutato mister Fascetti e accolto in panchina Giuseppe Materazzi. Ne diventerà il leader. Segna il primo, anzi, i primi due gol ufficiali già ad agosto, nel match di Coppa Italia contro il Licata, mentre a dicembre, contro il Pescara all’Olimpico, un siluro da fuori area vale la prima marcatura in Serie A. Alla Lazio, Sosa dimostra tutta la sua classe: velocissimo, funambolico, abile a muoversi nello stretto, un motore costante dalla metà campo in su, e poi quel mancino, quel piede, quella potenza.
Al primo anno romano, è già il giocatore con più presenze in campionato. Il 4 marzo 1990 segna, su rigore, all’Inter, che ancora non sa essere la sua futura squadra, nel campionato successivo fa godere i tifosi laziali mettendo la firma in entrambi i derby: all’andata, il 2 dicembre 1990, pareggia il vantaggio di Voeller, ripetendo la stessa dinamica il 7 aprile 1991. Chiude l’esperienza laziale nel 1991-92: 13 reti in campionato (non perde il vizio, altro gol alla Roma) più due in Coppa Italia. Se ne va da autentico idolo, portando con sé 140 presenze e 47 reti, con l’unico rammarico di non essere riuscito a portare a casa un trofeo. Per quello, arriva l’Inter.
A MILANO. In nerazzurro diventa in breve tempo il perno della squadra. La sua presenza in attacco è fondamentale per risollevare l’Inter nel girone di ritorno nella stagione 1992-93 e condurla a un ottimo secondo posto finale dietro il Milan di Capello. Il 1992-93 è anche il suo miglior anno realizzativo di sempre in Italia: 20 gol, di cui uno alla Juventus fuori casa, dove l’Inter non vinceva da dieci anni. Il gol dell’ex non può mancare: segna alla Lazio il 6 febbraio 1994, ed è una sforbiciata talmente bella da non poter non esultare. La gioia del trofeo da mettere in bacheca arriva quell’anno. È infatti protagonista nella cavalcata in Coppa Uefa, che “Rubencito” decide con 6 assist in 10 partite, compresi i due passaggi decisivi nella doppia finale contro il Salisburgo. A quel punto, il giocattolo si rompe.
SIPARIO. Resta in nerazzurro un’altra, discreta, stagione, poi decide che è tempo di cambiare aria. Ha già dato il meglio di sé, e si vede quando va a giochicchiare a Dortmund. Dal Borussia in poi è tutto in discesa, è tutto uno zig-zag di maglie. Torna in Spagna, nella piccola squadra di provincia del Logronés, poi in Uruguay al Nacional. In seguito prova persino l’esperienza cinese, al Shanghai Shenua, una decina di partite e la nostalgia di Montevideo lo fa tornare a vestire il bianco, azzurro e rosso del Nacional. Infine, gioca un paio di partite con il Racing Club, ancora nella sua città, per poi dire definitivamente basta nel 2005. Una decisione dietro l’altra, un viaggio imprevedibile com’era sempre stato in campo, quando i suoi dribbling e il suo mancino incantavano l’Olimpico e San Siro.