Zibi Boniek, un baffo dipinto di giallorosso

Il presidente della Federcalcio polacca, ha giocato tre anni nella Roma
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Nel 1956 l’Italia sta vivendo il suo miracolo economico. Lo Stivale è unito sotto molti punti di vista: “Lascia o raddoppia?” tiene tutti incollati davanti al televisore, mentre sul grande schermo Anna Magnani vince l’Oscar come miglior attrice protagonista per “La rosa tatuata”. È un periodo d’oro per il Belpaese, ma nel resto d’Europa non si vive allo stesso modo.

BLOCCHI MONDIALI. Ci sono due blocchi contrapposti: da una parte l’Alleanza del Patto Atlantico – la NATO – e dall’altra gli Stati comunisti del blocco sovietico, uniti dall’alleanza militare nata col Patto di Varsavia. C’è un clima glaciale, colpa della guerra fredda. In alcuni dei paesi dell’Europa Orientale i cittadini provano a insorgere: in Ungheria scatta la rivoluzione, ma viene duramente repressa dalle truppe sovietiche e perdono la vita quasi 3000 persone nel giro di poco più di due settimane. In Polonia, invece, precisamente a Poznan, scoppia la rivolta operaia contro il regime, ma anche in questo caso, nella repressione che segue muoiono circa 100 dimostranti. È in questo contesto che nasce uno dei simboli del calcio est europeo del dopoguerra: Zbigniew Kazimierz Boniek, detto Zibì. Un concentrato di potenza, genialità, spregiudicatezza e anarchia tattica.

Un centrocampista offensivo imprendibile, all’occorrenza anche attaccante, che ha lasciato il segno nel campionato italiano nel pieno degli anni ’80. Ha indossato la maglia delle due squadre che più di tutte hanno dominato in quel periodo: la Juventus e la Roma. I bianconeri l’hanno strappato ai giallorossi poco prima dei Mondiali in Spagna. Il polacco aveva un accordo col presidente Viola, ma all’ultimo momento si sono inseriti i dirigenti della Vecchia Signora e in poche ore la Juventus si è ritrovata in rosa due pezzi da novanta: Boniek e Platini. Zibì, nei tre anni a Torino, diventa grande amico di Michel e insieme trascinano i bianconeri a grandi vittorie europee.

 

ZIBI BONIEK ALLA ROMA - Nel 1985, dopo la vittoria in Coppa dei Campioni rovinata dalla tragedia dell’Heysel, firma con la Roma. Il suo arrivo non è gradito alla tifoseria. In più, la Capitale ha appena salutato il suo ottavo Re - Paulo Roberto Falcao - e Zibì ha un gran peso da portare sulle spalle. Dopo poche partite, però, è già un idolo della Curva Sud. Entra subito nel meccanismo della squadra allenata da Sven Goran Eriksson e, a detta del polacco, quello giocato dalla Roma è il calcio più spettacolare della sua carriera. Soltanto che i giallorossi bruciano tutto quello che di buono avevano creato in 90 minuti: dopo aver rincorso la Juve tutta la stagione, perdono in casa col Lecce già retrocesso e vedono sfumare il sogno scudetto. Quell’anno si conclude comunque con la vittoria in Coppa Italia, ma tutt’oggi resta l’amaro in bocca per quel Roma-Lecce. Boniek rimane nella Capitale altri due anni, l’età avanza ma resta comunque una colonna portante della squadra.

La sua duttilità fa spavento: da che era un centrocampista offensivo e spesso una punta aggiuntiva, inizia ad arretrare e a costruire le manovre del gioco. Spesso viene anche usato da libero, soprattutto nelle ultime stagioni, ma ciò che lo rende speciale è il suo attaccamento alla maglia. C’è un legame particolare tra lui e i tifosi: quell’astio iniziale dovuto al suo passato in bianconero, viene spazzato via da grandi prestazioni. In tribuna capiscono che quel ragazzo con baffo e capello rosso lotta per ogni centimetro del campo. È un guerriero. Incontenibile in progressione, a volte spregiudicato, a volte geniale. Per chi lo guida dalla panchina, un anarchico: spesso va contro il regime tattico dell’allenatore e inventa dal nulla sortite sfrontate. Agile, scattante, con riflessi da portiere e istinto da rapace d’area di rigore. Talmente innamorato della città eterna che, una volta smesso di giocare, c’è rimasto a vivere, ma così legato alla sua madre patria, che è diventato presidente della Federazione calcistica della Polonia.


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