C’è tutta la prudenza di Mourinho, ancorché interpretata con qualche distrazione sul primo gol degli spagnoli, c’è la sua furbizia, e c’è solo una parte del suo carattere, niente di più e niente di meno di quella che serve. La Roma che lascia Siviglia con un punto prezioso, e che rinvia l’esito della qualificazione alle ultime due gare con i finlandesi e i bulgari, osa meno di quanto potrebbe contro un Betis temibile ma non imbattibile. Perché le scelte dello Special si muovono tutte all’insegna del «primo non prenderle», tanto che a venti minuti dalla fine toglie Belotti per Bove, rafforzando il centrocampo per impedire le ripartenze degli spagnoli. Con una squadra falcidiata dagli infortuni il pareggio è una mediazione onorevole. Resta il fatto che perfino questa Roma, orfana della fantasia di Dybala come un’orchestra senza primo violino, ed orfana dei gol e dei guizzi di Abraham ancora parzialmente in versione sonnambulistica, avrebbe potuto tentare il colpaccio. Perché il Betis, una volta usciti Joaquin e Canales, e una volta fiaccatasi la fantasia di Rodrigo Sanchez, non è più in grado di affondare. Ma la razionalità dell’allenatore si sposa in questa fase con le misurate ambizioni di una squadra che ancora non è cresciuta come potrebbe. Questione di tempo, anche se il tempo stringe. Prendete Zalewski. Gli infortuni di Karsdorp e Celik gli offrono una maglia, lui la indossa e dimostra che non tutti i mali vengono per nuocere. Perché il ragazzo ha qualità, gambe, caparbietà, e un pizzico di paura. Può fare tanto, tanto di più, ma i suoi vent’anni gli suggeriscono nel finale di non affondare nel timore di perdere palla. Con Zalewski lubrificato dall’esperienza e Spinazzola risanato dalla conclusa convalescenza, la Roma avrebbe-avrà due esterni invidiabili. Poi il callo osseo le regalerà Wijnaldum, forse l’uomo che le manca di più. Perché Matic e Cristante possono fare le capriole, e Pellegrini può girargli ora davanti, ora di lato, ma non sono da soli un centrocampo competitivo, né in Italia, né in Europa. Kamara è un’incognita, ora lo vedi avanzare nella sua andatura caracollante e fallire anche un semplice passaggio, ora s’invola con grinta da fare paura. È un’opzione, non una garanzia. Mourinho lo sa, e lo gestisce a piccole dosi.
Ma i dubbi sulla stagione giallorossa stanno tutti davanti. Nella salute del genio argentino al ritorno dal Qatar e nelle residue speranze che Zaniolo metta le sue grandi qualità in connessione con il gruppo. Qualcuno, e noi tra questi, ci crede ancora. Da ultimo c’è il mistero di Abraham. Ventisette gol e sei assist l’anno scorso, solo due più due nelle prime undici gare quest’anno. Lo guardi e vedi che s’impegna, ma non ci crede come dovrebbe. Non è solo colpa sua, perché riceve davvero poco rispetto al movimento che fa. E non c’è un modo migliore per frustrare un attaccante che farlo correre a vuoto. Con queste incompiutezze la Roma attraversa il suo autunno di passione, cercando di limitare i danni. Se pensi a quello che ha patito fin qui, non puoi che condividere che la strategia di Mourinho sia stata ancora una volta un salvagente provvidenziale. In attesa di disporre della squadra migliore, è riuscito a tenere alta la classifica quanto basta per consentire un recupero tardivo. Le carte giallorosse si scoprono nel 2023, il furbissimo portoghese lo ha capito. E quindi si tiene a galla in campionato e insegue in Europa League l’ultimo strapuntino disponibile. Nelle due gare che restano la Roma può strapparlo, perdere ieri avrebbe significato restare in piedi. Un grande stratega lo vedi dal senso di realtà, dalla capacità di orientare le sue mosse all’aria che fiuta. L’olfatto gli dice che per ora si gioca in difesa. E va bene così.