Italia-Gravina, il lavoro non è finito

L’avvocato Grassani rilegge il percorso del presidente: lo conosce dal 1994
Mattia Grassani
5 min
Conosco, e bene, Gabriele Gravina dal 1994 (la moneta in corso legale era ancora la lira), allorquando un dirigente illuminato, quale era Vittorio Mormando, mi precettò nel Collegio Arbitrale della Lega Nazionale Professionisti Serie C. Presidente era il giovane Giancarlo Abete, e, oltre a Vittorio, la seconda vicepresidenza era ricoperta da Mario Macalli, assurto, di lì a breve, a capo della terza serie pallonara per oltre un ventennio. 

Il Presidente FIGC era un predestinato già a 40 anni. Federale fino al midollo, ligio alle regole e sempre rispettoso delle istituzioni, sportive e statuali, raramente ricordo inciampi dialettici, indenti diplomatici o sterili polemiche con chicchessia. Ha rappresentato il calcio in Italia ed all’estero senza pretendere nulla in cambio, mettere all’incasso cambiali o per interesse personale. Caratteristica distintiva è che Gravina, nel percorso di crescita compiuto, non ha bruciato le tappe, non è arrivato a Parco della Vittoria (il miglior lotto immobiliare del famoso gioco da tavolo) senza partire dal via. Ha sempre fatto il passo compatibile con la sua gamba, iniziando dal basso e arrivando dove si trova ora. 

In una parola, ha fatto la gavetta, quella vera. Quella che ti permette di affrontare “sciagure” sportive, tipo la mancata qualificazione a Qatar 2022, con serenità, grande equilibrio e forza interiore. Caratteristiche perfettamente percepite all’esterno, tanto che, dopo l’eliminazione per mano di una rappresentativa nazionale di secondo piano, mi riferisco alla Macedonia del Nord, quasi nessuno dei 65 milioni di Commissari tecnici italioti ne invocò le dimissioni. A ragion veduta. Così come la vittoria ad Euro 2020 (o 2021) fu gestita con sobrietà, senza esaltazioni e con la cultura del lavoro. Solo chi viene da Castel di Sangro, o località e contesti similari, può permetterselo, e Gabriele Gravina può. 
Non sono un tecnico, un giornalista né un politico dello sport, quindi, mi asterrò dal tentare di individuare cause, responsabilità e possibili rimedi di quello che, non a torto, potrebbe essere classificato come il momento più critico vissuto dal calcio nostrano. Dico, però, che il danno è enorme: fuori al primo turno nei mondiali del Sudafrica 2010, idem in Brasile 2014, out prima ancora di iniziare in Russia 2018 e Qatar 2022, due giorni fa eliminati dalla Svizzera agli ottavi del Campionato d’Europa. L’aria è irrespirabile, i franchi tiratori non si contano e, oggi, Gabriele Gravina farebbe fatica a sopravvivere a qualsivoglia sondaggio di popolarità, anche a quello più politicamente corretto. 

Ho lavorato per 20 anni al fianco di un grande uomo, di un dirigente illuminato, si chiamava Carlo Tavecchio: da Presidente della LND, nel 2001, a capo supremo della FIGC nel 2014, a responsabile del calcio lombardo nell’ultimo periodo. La sua gioia era la mia, la sua sofferenza anche. Il 13 novembre 2017 fu un giorno nerissimo, compresi i teatrini dell’intervallo per convincere il ct a inserire Insigne per scardinare i colossi nordici. Tavecchio si dimise, e sbagliò, sfiduciato, immotivatamente e ingiustamente, da un Presidente che gli doveva tanto, tutto. La storia ha poi dimostrato il valore di Carlo Tavecchio e la pochezza di altri. Ma l’errore fu suo, si fece prendere dall’ansia, braccato dalle Iene all’alba all’uscita della sua abitazione romana, dalle interrogazioni parlamentari e altro ancora, cedendo ai moti di piazza. Credo se ne sia pentito, ma resta, comunque, non solo per me, unico. 
Anche se so di andare controcorrente, il momento non è certo propizio per endorsement del genere. Piaccia o meno, Gabriele Gravina rappresenta il prototipo del dirigente in grado di rappresentare il calcio italiano, nella cattiva e, speriamo presto, nella buona sorte, ora e per il futuro. Sceglie il Commissario tecnico della Nazionale, d’accordo, ma i giocatori mica li può allevare in provetta. Ha credibilità, interna e internazionale, esperienza come pochi, idee e collaboratori di livello. Non vive grazie al pallone e questo non è poco. Adesso, rimbocchiamoci le maniche, Caro Presidente federale, e, ben saldo nella cabina di regia, conduci, con il tuo lavoro, la nave nel porto che ci meritiamo, traguardo più che raggiungibile per uno come te. 


© RIPRODUZIONE RISERVATA