Italia, che disfatta: tutto quello che non ha funzionato

Buttati fuori da una Svizzera senza fenomeni. Al gioco assente si è aggiunta l’evaporazione dei singoli azzurri
Alberto Polverosi
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Durante la triste conferenza di addio all’Europeo, al ct hanno chiesto se, come aveva promesso all’inizio della sua avventura azzurra, aveva visto il miglior Spalletti. Nella domanda era già incorporata la risposta e Luciano non poteva fare altro che confermarla: no, non lo aveva visto. In realtà non è stato il miglior Spalletti, ma nemmeno il peggior Spalletti, più semplicemente non è stato Spalletti. 

Quasi trent’anni fa, nell’umido e afoso pomeriggio di Cremona, quando con un gol di Carmine Esposito portò l’Empoli in Serie A, eravamo con lui nello spogliatoio dello “Zini”. E’ da quel giorno che abbiamo seguito, con ammirazione, la sua evoluzione tecnica. In carriera ha passato anche dei momenti non molto piacevoli (pochi, per la verità), ma le sue squadre hanno sempre avuto il suo marchio. Erano riconoscibili a prima vista. L’Italia è stata irriconoscibile. Spalletti ha sempre risolto i suoi giocatori, all’Europeo gli azzurri erano irrisolti. Ha sempre trasmesso il suo carattere, contro la Svizzera i giocatori si nascondevano. Conoscendolo da così tanto tempo, non siamo rimasti delusi, ma increduli. Non era Spalletti quello seduto sulla panchina dell’Italia. 

Come succede dopo ogni tragedia (questa per fortuna è solo calcistica) nel nostro Paese si scateneranno le polemiche, chiederanno la testa di Gravina, interverranno i Grandi Nomi del calcio italiano per dire dei settori giovanili, della tecnica, del talento da allenare, dello spazio da concedere ai giovani, del coraggio degli altri ct a far giocare gli under 20, under 21 e under 22, dimenticando che gli altri nelle loro nazionali non fanno giocare i giovani, ma i fenomeni. Musiala è titolare perché è un campione, Lamine Yamal e Nico Williams lo stesso, Bellingham idem. Ma quando li avevamo noi, i fenomeni, mica aspettavano di laurearsi per debuttare in Nazionale. Tale Gianni Rivera indossò la prima maglia azzurra a 19 anni, Mancini a 20 come Del Piero, Totti non ne aveva ancora 21.  
In questo Europeo avevamo poco, lo stiamo ripetendo da tempo, ma quel poco doveva per forza dare di più. D’accordo, non c’era Chiellini, quello che prende per la collottola Saka mentre sgattaiola nel corridoio di casa sua e gli dice “bimbo, stai bono, ma dove credi di andare?”, non c’era Bonucci, non c’era Verratti, ma Spalletti aveva con sé quattro giocatori che hanno appena vinto lo scudetto e che dodici mesi fa sono arrivati in finale di Champions, Yakin aveva un solo rappresentante di quella finale (Akanji), oltre a un finalista più recente, ma di Europa League, e Xhaka quella finale contro l’Atalanta (di Scamacca, guarda te) se la ricorderà per un pezzo. In azzurro c’era Di Lorenzo, uno dei migliori terzini d’Europa di fascia destra fino a un anno fa (quando sulla panchina del Napoli c’era proprio Spalletti); c’era Fagioli, una scommessa (persa) dal ct; c’era Scamacca che nel girone di ritorno con l’Atalanta ha fatto fuoco e fiamme arrivando a 19 gol stagionali; c’era Chiesa che tre anni fa era stato decisivo nella conquista del titolo di campioni d’Europa. Bene, dove sono finiti? Avevamo di fronte una buona squadra, con un terzino del Toro, uno del Newcastle più Akanji, un centrocampista del Rennes (Rieder), un attaccante dell’Augusta (Vargas, che in Bundesliga ha segnato 4 gol, e lo abbiamo trasformato in Garrincha), tre giocatori del Bologna (Ndoye e Freuler 1 gol a testa e Aebischer 0 gol in Serie A) tutti bravi, come no, ma nessun fenomeno.

Quando Vargas ha segnato quella rete fantastica, col tempo e lo spazio che non si concedono nemmeno in allenamento, in area eravamo cinque contro tre e tre (Di Lorenzo, Cristante e Mancini) contro Vargas: nessuno ha pensato che forse era il caso di accorciare. Nessuno. Spalletti insiste con la mancanza del ritmo e dell’intensità e ha ragione, ma ritmo e intensità di gamba sono la conseguenza del ritmo e dell’intensità del pensiero. È quello che Luciano non ha dato ai suoi giocatori, il pensiero di squadra. 
Eravamo poco, ma non così poco. 


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