Italia, così piccola e fragile

Leggi il commento del direttore del Corriere dello Sport - Stadio
Ivan Zazzaroni
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Nella storia d’Italia ci sono nazionali che abbiamo amato tantissimo, quella dell’82 più delle altre. All’Azzurra di Luciano possiamo giusto voler bene. Anzi, dobbiamo farlo. Perché ha limiti indiscutibili, è fragile, il brutto anatroccolo della favola dei quattro titoli mondiali. E perché la colpa, in fondo, è soprattutto nostra: di chi l’ha descritta piena di cigni che cigni in realtà non sono. Anche se dovesse passare il turno, o andare addirittura oltre, resterebbe una Nazionale di A2, i cui unici valori elevati sono Donnarumma e Barella. Certo, se poi ripetesse il miracolo del 2021, tutti in pullman a Trevignano. Guida Gravina. Voler bene a questa squadra significa trasmettere ottimismo e fiducia prima di ogni evento. Considerare Bastoni e Calafiori dei grandi difensori: hanno piede, sono belli da vedere, ma sull’uomo vanno sempre in difficoltà e in mezzo all’area corrono, raramente li trovi in posizione. E quando nei sedici metri sei portato a (rin)correre per difendere, rischi e spesso sbagli. Voler male a questa squadra significa sovraccaricare di responsabilità l’allenatore che, potendo lavorare poco, non può incidere come vorrebbe e potrebbe. Si vuole bene a chi ha di meno: là dove presentavamo Tassotti ora c’è Di Lorenzo; là dove Pirlo inventava calcio oggi c’è Jorginho; là dove Totti e Del Piero diffondevano fantasia, beh, lasciamo stare.

Non produciamo più campioni, quante volte l’abbiamo ripetuto, l’ultimo è stato proprio Francesco. Da qualche tempo abbiamo le migliori nazionali giovanili, che vincono titoli e si fanno ammirare, eppure quei ragazzi non riusciamo a farli crescere nel calcio che conta. Si fermano quasi subito perché li riempiono di soldi, attenzioni e luce, in pochi mesi le agenzie di procuratori li rendono ricchi e appagati, danni irreparabili. L’ho scritto giorni fa e mi ripeto: siamo bravissimi a migliorare i nostri avversari e a peggiorare i talentini italiani. Ieri un quotidiano portoghese valutava Hjulmand, ora al Benfica, 80 milioni. Anche a Lisbona sono fuori di testa, certo, ma chi ha migliorato il centrocampista danese? Chi ha investito su di lui quando aveva 22 anni? Il Lecce del Panta Corvino, Italy.

Negli ultimi anni una forma apparentemente incurabile di frustrazione da assenza di qualità ha indotto la federcalcio a oriundizzare qualsiasi straniero (con cittadinanza estendibile) leggermente al di sopra della media (forse). Con questo stratagemma, che ho sempre criticato, sono diventati convocabili Luiz Felipe, Eder, Franco Vàzquez, Paletta, Schelotto, Motta, Amauri, Ledesma, Toloi, Emerson, Jorginho. Inoltre, su indicazione di Mancini prima che ci lasciasse, via Allegri ha avviato un programma di ricerca nei cinque continenti di radici e nonni italiani che non ha prodotto risultati apprezzabili, giusto Retegui. PS. Dei tanti messaggi ricevuti ieri, ne riporto uno che ho trovato azzeccatissimo: «Spalletti se l’è voluta giocare ad armi pari e purtroppo non c’è stata partita. È stata una scelta condivisibile, o meno, va rispettata. Forse, ripeto forse, fosse stato più strategico avrebbe ottenuto di più. Però siamo noi italiani a perdere il senso della misura e dimenticare le peculiarità e le caratteristiche che ci hanno portato ad essere quattro volte campioni del mondo». Come direbbe Loretta Goggi a Tale e Quale Show, chapeau. Anche se nel calcio diffido sempre delle imitazioni.


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